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Nessun permesso
alla Franzoni

Per almeno altri quattro anni, data la gravità del reato commesso e le regole fissate dall'Ordinamento penitenziario nei confronti dei detenuti pericolosi, Anna Maria Franzoni, condannata a sedici anni di reclusione per aver ucciso il 30 gennaio 2002 a Cogne (Aosta) il figlioletto Samuele, non potrà chiedere permessi premio per uscire dal carcere. Lo spiega la Cassazione nella sentenza 31059 depositata oggi che contiene le ragioni del 'no' ai permessi deciso nell'udienza svoltasi lo scorso quattro luglio.

Ad avviso della Prima sezione penale della Suprema Corte, a carico della Franzoni opera il principio della "preclusione temporale", in relazione alla pena finora espiata, per poter provare a chiedere di trascorrere tre giorni al mese con la famiglia. Per i reati gravi come quello per il quale è stata condannata la 'mamma di Cogne', rileva la Cassazione, i detenuti, al pari di chi viene condannato per mafia e terrorismo, devono aspettare di aver scontato in carcere "almeno metà della pena". Rispetto ai sedici anni ai quali ammonta la condanna, i supremi giudici osservano che la Franzoni deve scontare ancora "dodici anni, tre mesi e dodici giorni per omicidio aggravato".

Quindi dovrà attendere circa quattro anni per tentare di uscire dalla cella. Senza successo i suoi legali - avvocati Lorenzo Imperato e Paola Savio - hanno sostenuto che così "ci sarebbe contrasto con i principi dell'Ordinamento penitenziario e della Costituzione sulla finalità rieducativa della pena e che ogni rigido automatismo, nella concessione dei permessi, è in linea di principio da ritenersi sempre superabile". Inoltre la condanna riguarderebbe "un fatto isolato, e la donna è priva di precedenti penali ed è perfettamente inserita nel contesto familiare". Niente da fare: per la Cassazione "il ricorso è infondato".

"E' manifestamente da escludere - spiegano i supremi giudici - la violazione dell'art. 27 della Costituzione, rientrando nella piena e insindacabile discrezionalità del legislatore la modulazione della disciplina dei permessi premio, anche in funzione della gravità del titolo del reato e con previsione di soglie differenziate per l'ammissione al beneficio, in rapporto alla durata della pena espiata nella prospettiva della progressività del trattamento". Con questo verdetto - che convalida la decisione emessa lo scorso 25 ottobre dal Tribunale di sorveglianza di Bologna - la Suprema Corte ha aderito anche alle indicazioni espresse dal sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta che aveva obiettato che "l'automatismo del divieto di concessione dei permessi premio, prima di un certo tempo, non compromette la funzione rieducativa della pena". Già nell'agosto del 2010, la Franzoni aveva chiesto - senza ottenerlo - un permesso straordinario per assistere il suocero malato e poi deceduto lo stesso mese.

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