Venerdì 22 Novembre 2024

Chomsky, quel che resta
del linguaggio politico

Noam Chomsky

di Francesco Musolino

Politologo di fama mondiale, filosofo e docente emerito di linguistica presso il prestigioso MIT (Massachussets Institute of Technology), Noam Chomsky è considerato una vera e propria icona, un maestro del libero pensiero, sostenitore del movimento di protesta “Occupy Wall Street” anche in virtù della sua professione di fede anarchica, ormai celebre sin dalla sua fiera opposizione all’intervento americano in Vietnam. La “Gazzetta del Sud” ha potuto realizzare quest’intervista con il prof. Chomsky in occasione del suo viaggio in Italia per inaugurare l’anno accademico della Scuola Superiore Universitaria IUSS di Pavia – una delle quattro scuole superiori italiane con la “Normale”, la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e la SISSA di Trieste – nella nuova sede dell’Istituto nel Palazzo storico del Broletto. Le oltre mille persone presenti all’evento hanno potuto ascoltare dal vivo la prolusione intitolata “Language and limits of understanding”. Chomsky ha così fatto il punto circa i limiti della lingua e della comprensione umana riguardo i fenomeni del mondo, con particolare riferimento al funzionamento del cervello e della sua facoltà principale, il linguaggio, partendo dalle grandi conquiste della ricerca scientifica e concentrandosi in particolare sulle sfide che sembrano ancora inviolabili.
Con la Gazzetta l’occasione è stata propizia anche per fare il punto circa la fine del primo mandato di Obama, le future elezioni americane, senza tralasciare il peso dell’antipolitica in Italia, la situazione economica europea e il rischio di default.

Professore, in relazione alle sue ricerche circa il linguaggio e i limiti relativi alla reciproca comprensione, crede che sarebbe preferibile tutelare le lingue dialettali, anche delle piccole comunità, o viceversa dovremmo augurarci di utilizzare tutti la medesima lingua, come l’inglese?
«La scomparsa di una lingua è una perdita di ricchezza culturale, memoria storica, legami sociali, e molto di più. Naturalmente, per le persone interessate alla natura del linguaggio questa è sempre una perdita irrevocabile. Un mondo in cui tutti siamo uguali sarebbe un mondo molto noioso, privo gran parte della sua vitalità e creatività. E ciò accadrebbe irrimediabilmente sia se parlassimo tutti soltanto l’inglese, il cinese o l’hindi».

Kalle Lasn, ideologo di “Occupy Wall Street”, ha dichiarato di essere pronto a fondare un nuovo partito, perché il bipolarismo americano non funziona più. Crede sia la scelta corretta?
«Il sistema politico degli Stati Uniti è senza dubbio in condizioni disastrose ed è sotto gli occhi di tutti. Questi sono i risultati anche di un processo di degradazione del linguaggio politico che è in atto da molto tempo. D’altra parte ci sono stati degli sforzi per sviluppare forze alternative al bipolarismo e attualmente il movimento Green è il miglior esempio possibile. Ma il sistema politico degli Stati Uniti è stato progettato per rendere questa forzatura estremamente difficile, se non praticamente impossibile. In pratica non vi è alcuna rappresentanza proporzionale e l’ingresso nel sistema politico è sostanzialmente impossibile per formazioni alternative. Come se non bastasse, oggigiorno il finanziamento economico privato necessario per “correre” politicamente negli ultimi anni ha raggiunto livelli ridicoli. Va detto che il movimento Occupy non ha un “ideologo” nel senso stretto del termine, ci sono molte idee e correnti e non sono certo che sia l’idea giusta quella di dar vita ad un nuovo partito. Forse no, perché le fonti del malessere politico negli Usa sono purtroppo molto profonde».

Anche in Italia le forze della cosiddetta “antipolitica” (ma c’è chi non è per nulla d’accordo con questa definizione), guidate da Beppe Grillo, stanno raccogliendo grandi consensi. In generale è un buon segno poiché cresce la partecipazione popolare o c’è il rischio sensibile di una deriva demagogica?
«Non posso commentare la situazione italiana o la campagna di Grillo, ma non c'è dubbio che la demagogia sia un problema enorme anche in Italia, come rivelano le vostre recenti esperienze politiche. Tuttavia uno sguardo alle attuali elezioni degli Stati Uniti rivela che le scelte alternative sono poche o nulle».

Si avvicina la fine del primo mandato di Obama. Come giudica il suo operato?
«Avrebbe dovuto e potuto fare molto di più e d’altra parte, a mio avviso, ha compiuto molte scelte davvero discutibili. Francamente avevo poche aspettative, come ho avuto modo di scrivere ancor prima della sua elezione, quindi non sono stato deluso, fatta eccezione per il suo attacco acuto contro i diritti civili fondamentali, il che mi ha davvero sorpreso. Queste sono decisioni che non potranno non avere una ricaduta elettorale».

Non è un mistero che lei non abbia stima di Mitt Romney (candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti). Perché?
«Le scelte politiche di Romney sono progettate per arricchire i più ricchi e rafforzare il più potente, non importa quale sia il costo e per questo motivo si guarda bene dal chiarire i suoi progetti. Ma la sua strategia politica, se messa in pratica, sarebbe un vero disastro per il mondo intero».

Lei non condivide la politica di austerità imposta alla Grecia, alla Spagna e in misura diversa all’Italia, considerandola la via più rapida per la recessione...
«L'austerità durante la recessione o la stagnazione economica è molto probabile che dia luogo a problemi peggiori, proprio come ha fatto. Sembra che finalmente – decisamente troppo tardi – le autorità europee abbiano compreso che la responsabilità del disastro in atto ricade proprio su loro e per tale motivo sembrano decisi ad utilizzare le ampie risorse europee per stimolare la crescita. Sono d’accordo con gli analisti della stampa economica che insistono sul fatto che questo è il momento di spingere l’acceleratore. Adesso non è proprio il momento di tirare i remi in barca».

Il destino della Grecia è ancora incerto. Quali conseguenze dobbiamo aspettarci da un suo default?
«Nessuno lo sa veramente. Sarebbe senza dubbio una mossa rischiosa, molto rischiosa, sia per la Grecia che per l’Unione Europea». 

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