di Anna Mallamo
Non fidatevi di Hollywood. Come ufficio stampa della Storia di solito il cinema – in particolare un certo cinema americano narcisistico e autocelebrativo – è pessimo: fanfarone, semplificatore, persino fazioso. Ma come fabbrica di miti è, al momento, imbattibile. Prendiamo il caso di Alamo. Persino un italiano medio del terzo millennio ha sentito nominare il forte di Alamo e la relativa battaglia, che insieme con il generale Custer, i sudisti e i nordisti, il Little Big Horn, Geronimo e gli Apache è più o meno tutto quel che un qualsiasi europeo contemporaneo sa della storia degli Stati Uniti. Ma non lo sa perché lo ha studiato a scuola: lo sa perché lo ha visto al cinema.
Nessuno di noi sa esattamente cosa sia accaduto ad Alamo, ma tutti ricordiamo l'eroico John Wayne con in testa uno strano berretto di pelliccia (nel Texas dove la temperatura era di circa quaranta gradi?), morto nel tentativo di resistere alle soverchianti e malvagie forze nemiche. E infatti, in quello come negli altri 25 (venticinque) film girati su Alamo – per non parlare delle migliaia di libri, articoli e adesso siti internet: in assoluto l'evento bellico più celebrato della storia Usa – si racconta a senso unico l'epopea della “libertà” statunitense, di cui Alamo è diventata una sorta di marchio di fabbrica, di simbolo definitivo. E John Wayne nel film non è altri che il leggendario Davy Crockett, con in testa l'altrettanto leggendario cappello di pelliccia di procione, che nella realtà pare non sia stato mai indossato da Crockett, e certamente non nel forno texano, ma che è entrato stabilmente nell'iconografia, tutta fasulla, dell'eroe e, ovviamente, nel relativo merchandising, facendo persino rischiare l'estinzione degli incolpevoli procioni, dal momento che negli anni 50 si arrivò a vendere oltre cinquemila cappelli “di Davy Crockett” al giorno (danni collaterali della pessima storiografia e dell'ottimo commercio, verrebbe da dire).
Dunque, da semplice scaramuccia di poca importanza nell'ambito della guerra per l'indipendenza del Texas (il Texas schiavista e sfruttatore, non dimentichiamolo), combattuta il 6 marzo 1836 tra un contingente dell'esercito messicano e appena duecento coloni texani asserragliati nella missione fortificata di El Alamo, senza speranza di vittoria, la “battaglia di Alamo” – del tutto ignorata dalla storiografia messicana – diventa mito fondativo statunitense di cui Hollywood s'impadronisce, consacrandolo nella sua versione più irrealistica, fasulla, ideologica.
Ma quando un mito fondativo cresciuto sulla celluloide e infiocchettato di falsità incontra uno storico dissacrante, rigoroso, “politico” e anche narratore d'eccezione come Paco Ignacio Taibo II il mito fondativo è un mito morto. Ed è persino costretto a togliersi quel ridicolo berretto di pelliccia di procione.
Paco Ignacio Taibo II (detto PIT), giornalista, docente e scrittore prolifico e appassionato, spagnolo d'origine divenuto messicano dopo la fuga della famiglia dalla dittatura franchista, è autore di saggi e romanzi in parti uguali: le sue storie e le sue narrazioni nascono entrambe da un furioso amore per la verità e per la giustizia, le sue storie della Storia sono smontate e rimontate in forma di letteratura, e le sue narrazioni sono sempre nutrite di rigore ed esattezza: non di rado quando la Storia prova a confondere le acque, arriva la letteratura a ristabilire verità e anche “giustizia poetica”. Dunque, in “Alamo”, appena uscito, nella traduzione di Pino Cacucci, per l'editore Marco Tropea (pag. 288, euro 14), Taibo smonta, pezzo per pezzo, con acribia di storico e potenza di narratore, il “mito Alamo”, «vero cuore del progetto imperialista Usa. Non Washington, non Lincoln, ma Alamo». Quella lontana battaglia perde piano piano, nelle pagine incalzanti di PIT, l'eco della fanfara, e ci viene restituita, riscritta, sfrondata da tutte le invenzioni, le incrostazioni, le franche menzogne che nel tempo l'hanno rivestita per intero. Con Hollywood in prima fila.
«Ma anzitutto precisiamo – ci dice subito Paco Ignacio Taibo – : di Hollywood ce ne sono due: una ontologicamente progressista, provocatoria, intelligente; l'altra falsa, imperialista, semplificatoria. Ahinoi, Alamo è stata raccontata da quest'ultima».
In questo libro fino a che punto collaborano e s'intrecciano, Storia e letteratura?
«Il problema della Storia non è solo investigarla col massimo del rigore: la Storia è anche arte narrativa, e se si dimentica questa verità si scrivono libri noiosi, farraginosi, destinati a non essere letti che nel circuito interno degli storici. E invece la Storia è un'altra cosa, è patrimonio di tutti: il vero grande problema è raccontarla per tutti senza perdere un millimetro di rigore».
Dunque, la storia investigata da uno storico ma raccontata da un narratore...
«Bien! Anche perché l'opposto sarebbe davvero un incubo... E ce n’è, di incubi» .
Perché proprio Alamo?
«Perché è una delle storie più false e fraudolente che ho mai incontrato nella mia vita. E sono stato sconvolto dalla quantità di falsità. Quel che mi ha “movido”, commosso, è stato il livello della frode».
Ma c'è una certa quantità di falsità in tutte le storie, no?
«Sì, questo è vero. Però quel che è sorprendente in questa particolare storia è che non ci sono solo le grandi bugie, ma sono falsificati persino i più minuti dettagli: persino il coltello di Jim Bowie, la riga sulla sabbia, il cappello di Davy Crockett... ».
Davy Crockett allora è un personaggio emblematico di questa storia fasulla: un «troglodita» cui viene cucito addosso un mito e lui stesso si adegua al mito, anzi ne diventa dipendente. Davy Crockett è Alamo...
«Hai centrato il punto. Hai la storia».
Una storia finora raccontata unicamente da un punto di vista, quello americano. Sostanzialmente non esiste, il punto di vista messicano.
«Ma il mio non è comunque un libro scritto da un messicano. Non contiene alcuna simpatia, per esempio, nei confronti dei militari messicani. C'è una distanza critica precisa».
Dunque Alamo non è solo un'operazione storica e narrativa. È anche profondamente politico ristabilire questa verità.
«Tutti i libri di storia sono politici. Sono dibattiti sopra la realtà, sono dibattiti sul modo in cui si racconta la realtà, al di là della specifica vicenda raccontata».
Si definisce più narratore o più storico? Se dovesse scegliere – ma per fortuna non deve, eh – una sola definizione, quale preferirebbe?
«Rispondere a questo è rinunciare a una proposta schizofrenica, quella che pretendo di fare con questi miei libri: essere il più narratore possibile e il più storico possibile».
Una proposta schizofrenica può aiutare la “giustizia poetica” di cui parla alla fine del libro?
«Sì, può. Però col prossimo libro ho intenzione di riposarmi. Questo mi ha obbligato a fondere due libri in uno: quello che racconta ciò che è accaduto e quello che racconta il modo in cui è stato raccontato ciò che è accaduto. Necessario, ma faticosissimo».
Ci sono altre Alamo, in questo momento, per cui uno storico-narratore “schizofrenicamente” dovrà tornare a narrare, a ristabilire la verità?
«Chi può dirlo: la Storia ha bisogno di tempo e di distanza».
Infine, negli Usa vincerà Obama?
«Sì, ma non importa. Perché governerà con le tasse e non cambierà veramente il sistema».
A noi, comunque, resta un sogno: un PIT che ci riscriva la storia del Risorgimento italiano, magari partendo da Sud, e smontando alcuni miti, o anche tutti. Abbiamo anche noi i nostri ridicoli cappelli di procione da buttare via.
Caricamento commenti
Commenta la notizia