di Anna Mallamo
Chi lo direbbe, che nel nostro globo ormai così piccolo e conosciuto fin nei suoi angoli più riposti esistano luoghi del tutto sconosciuti, lasciati al margine della storia e contemplati soltanto – o forse nemmeno, chissà – dagli occhi meccanici dei satelliti. Che esistano luoghi dove è ancora possibile vivere un’avventura, nel suo senso più squisitamente etimologico: ciò che ci viene incontro, una volta che ci siamo lasciati alle spalle le abitudini e i luoghi conosciuti. E chi direbbe che taluni di questi luoghi favolosi sono vicinissimi a noi, anche se separati da una distanza che non è fisica, ma psicologica, questa sì enorme, e, purtroppo, talora incolmabile.
Sto parlando di quel continente favoloso, remoto e quasi del tutto inesplorato che è la Calabria. Non la Calabria delle città o delle coste balnearizzate, la Calabria dei dépliant o dei (terribili) Bronzi palestrati e animati come manga che ti fanno l’occhiolino, la Calabria del folklore rassicurante e un poco retorico. Semmai la Calabria segreta di cui parlano ancora – con incredibile vividezza – libri antichi come “Old Calabria” di Norman Douglas, il viaggiatore cosmopolita che costruì, su quelle tante “esplorazioni” calabresi, tra il 1907 e il 1947, una durevole fortuna letteraria (il suo libro, uscito nel 1915, è ancora pubblicato e letto e costituisce un classico della letteratura di viaggio e, assieme, della narrazione sulla Calabria). La stessa Calabria che è ancora possibile raggiungere, a piedi e con molta pazienza, risalendo i suoi sentieri nascosti, scostando le sue felci primordiali, aggirando le sue trappole di detriti, le sue cascate incontenibili, le sue forre traditrici.
Una Calabria old, raggiungibile solo con un viaggio molto, molto old, quasi inconcepibile nel fast contemporaneo. Un viaggio per cui ci vogliono le stesse cose necessarie per leggere – o scrivere – un buon libro: lentezza, passo, disciplina, pazienza, immaginazione, desiderio, entusiasmo, capacità d’attesa.
C'è uno scrittore che – da molti anni ormai – compie questa sorta di viaggi nella duplice dimensione del cammino e della scrittura. Percorre la Calabria old, nel suo modo estremamente old, passo dopo passo, con un doppio carico, materiale e immateriale: lo zaino e le letture, gli attrezzi e le prose, le funi e le citazioni. Perché un viaggio comincia sempre molto prima, nell’immaginazione e nella lettura, e finisce sempre molto dopo, nella memoria e nel racconto.
Francesco Bevilacqua, lametino, classe ’57, autore di “Sulle tracce di Norman Douglas – Avventure fra le montagne della Vecchia Calabria” (Rubbettino, pp. 285, euro 7,90), è un viaggiatore anomalo, strenuo difensore della “restanza” (dal geniale neologismo coniato dal prof. Vito Teti, antropologo lui pure calabrese e lui pure dedito alla missione della salvaguardia dei luoghi e del loro significato), di quel «viaggiare restando» che fa piazza pulita di ogni facile dicotomia tra restare/stagnare e partire/rivivere che domina spesso la psicologia meridionale.
Restando, si possono fare viaggi interminabili, scoperte incredibili, esperienze avventurose. Parola di chi, da trent'anni, si occupa di viaggiare proprio quel continente sommerso e sconosciuto che dicevamo, la Calabria dei monti e dei segreti, la Calabria dove le tracce della millenaria faticosissima civiltà vanno sparendo, spesso sostituite da brutture e abomini, la Calabria che è come un’Amazzonia sconfinata e sconosciuta eppure in pericolo. In effetti, la fitta produzione letteraria di Bevilacqua – che in questi anni non ha solo camminato tutta la Calabria camminabile, ma l’ha scritta e descritta e pure fotografata (ma attenzione: niente di patinato, e sempre quello stupore e quel confronto impari e magnifico tra l’interminata bellezza dei luoghi e la finitezza ardita del piccolo uomo che li esplora) – comprende guide e descrizioni, mappe e riflessioni, poetici trattati sul genius loci e rassegne d’immagini. Perché Bevilacqua è allo stesso tempo – lo dice con grande chiarezza Giuseppe Merlino nella bellissima introduzione – «podista, esploratore, esteta, topografo, geografo, letterato e moralista». Infatti, in un certo senso questo libro è una summa di tutti i suoi precedenti: i libri scritti e quelli camminati, escursione dopo escursione e chilometro dopo chilometro, nella Calabria-Amazzonia dell’avventura.
C'è dentro lo spirito-guida di Norman Douglas, che Bevilacqua chiama confidenzialmente “Norman” e può permetterselo, dopo una frequentazione trentennale con quell’ “Old Calabria” assunto per quel che è: una guida fisica e psicologica alla Calabria, ancora attuale. Ci sono dentro le esplorazioni sugli stessi luoghi di Douglas: il libro è diviso nei quattro grandi blocchi dedicati al Pollino, alla Sila, alle Serre e all’Aspromonte, dove l’old è contrapposto al new, ma si capisce subito che non è una vera contrapposizione ma un darsi reciprocamente ragione, e concludere che la Calabria è intrinsecamente old, e meno male. Perché la si può avvicinare e cogliere solo con strumenti old come la lentezza, la disciplina, l’attenzione e l’etica. Roba da camminatori e da scrittori.
Douglas percorrendo (a piedi) i luoghi li osservava e li filtrava attraverso il suo enorme bagaglio di conoscenze: parlava della religiosità della Calabria e dell’indole dei suoi abitanti, della sua storia e della sua botanica, dei suoi miti e dei suoi mostri. Lo stesso fa Bevilacqua. Perché viaggiare è anche confrontare una massa di saperi e notizie con la realtà viva dei luoghi, e poter confermare o smentire stereotipi, affermazioni, mitologie. Un’avventura intellettuale continuamente mescolata all’avventura fisica ed estetica. Così ci sono pagine sul brigantaggio e sui conclavi della 'ndrangheta, sull'abbandono dei paesi e sui soprusi dei latifondisti: la storia è scritta nei luoghi, malgrado gli uomini. E ci sono pagine intensamente etiche, quando si parla – con dolore – della povertà e dell’arretratezza e, peggio ancora, dell’indifferenza e della cecità, quelle che conducono alla spoliazione e all’immiserimento dei luoghi, inseguendo una modernità senza sviluppo e senza senso, sostenuta dal cemento e dalle malepolitiche. Il libro è anche – infatti – un (necessario) catalogo di brutture e ferite. Quasi sempre irreparabili: chi non ha radici non potrà mai avere fronde e frutti; chi non vede la bellezza non potrà mai essere davvero felice.
A proposito di uno dei luoghi più belli tra quelli descritti, l’alta valle del Raganello, nel Pollino, Bevilacqua scrive: «Me lo immagino finalmente e seriamente valorizzato, con una strada sistemata (ma non per forza asfaltata), le masserie ristrutturate e trasformate in agriturismi, le famiglie di contadini e pastori organizzate in piccole aziende agro-silvo-pastorali che per tutto l’anno commercializzano prodotti tipici e ospitano turisti rispettosi dell’ambiente. E invece vedo solo la desolazione». Ecco.
Prende corpo, in questa Calabria-Amazzonia profondissima, inviolata eppure violata, una necessità etica di cui – al momento – in pochissimi volenterosi si fanno portatori: gli amanti e i conoscitori della montagna, alcune cooperative di giovani, sparute associazioni e singoli benemeriti che resistono malgrado tutto. Troppo poco. La old Calabria – così giovane e millenaria – merita molto, molto di più.
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