Giovedì 19 Dicembre 2024

Riscopriamo
il bene comune

Salvatore Settis è un signore che conserva il tratto gentile dei galantuomini meridionali, non alza mai la voce, ma quando parla, o scrive, le sue parole pesano come macigni e si abbattono su mediocrità culturali e politiche, disuguaglianze, degrado, insomma su tutte quelle “anomalie italiane” che richiederebbero alle comunità di cittadini di trovare la forza e la capacità di indignarsi e riguadagnare quella sovranità che loro compete. Settis è nato in Calabria, a Rosarno, è uno studioso autorevole, membro di varie accademie, in Germania, Francia, Belgio, Stati Uniti. In Italia è stato direttore della Normale di Pisa e presidente del Consiglio Superiore dei Beni culturali. Ha tenuto cattedre importanti in Spagna, America e Inghilterra. I suoi libri su arte, paesaggio, storia sono stati tradotti in 12 lingue. L’ultimo saggio, appena pubblicato da Einaudi, “ Azione Popolare “ (pp. 240, euro 18), ha un sottotitolo abbastanza esplicativo:   “Cittadini per il bene comune”. È un libro-manifesto con cui il professore «contro l’indifferenza che uccide la democrazia» propone di puntare alle mete come giustizia sociale e tutela dell’ambiente da considerare priorità del bene comune. Il «bene comune” è l’idea forte del messaggio-ragionamento di Settis, che spiega come sia urgente un’etica «ricalibrata» e indica nella vecchia bella Costituzione (proprio quella di cui Roberto Benigni ha parlato l’altra sera, magnificamente, in tv) il baluardo, la zattera di salvataggio.
Professor Settis, nel suo libro sostiene che serve un’altra idee di Italia, per liberare energie civili, creatività, lavoro. Qual è questa idea, per la quale tutti i cittadini dovrebbero mobilitarsi ?
«Credo che sia ora di ricordarsi che l’Italia ha una Costituzione, e che nella Costituzione sono esposti molto chiaramente alcuni principi-base che non sono affatto invecchiati, anzi sono di strettissima attualità. Per esempio, il diritto alla salute (art. 32) è oggi messo a rischio dai continui tagli alla sanità pubblica: perciò nel rivendicarlo dovremmo richiamare chi ci governa al rispetto della Costituzione, a cui hanno giurato fedeltà al momento della formazione del governo. E ricordiamo che in altri Paesi il diritto alla salute nella Costituzione non c'è proprio: basti citare gli Stati Uniti. Altro esempio pertinente, il diritto al lavoro, assicurato dall’art. 4. I milioni di giovani disoccupati dovrebbero ricordarsene nel reclamare politiche diverse, che anziché accrescere la disoccupazione, com’è avvenuto anche nell’ultimo anno, possano stimolare l’occupazione dei giovani».
Per le nozioni che approfondisce – bene comune, giustizia sociale, ecologia – il suo saggio sembra diventare un manifesto politico, un’agenda sulle cose da fare per uscire dagli incubi che ci siamo creati.
«Ho inteso il mio libro proprio come un’agenda politica, scritta da un cittadino comune che non ha mai fatto parte di alcun partito e non si è mai candidato a posizioni politiche, né intende farlo ora o in futuro. Troppo a lungo abbiamo chiamato “politica” solo quello che fanno i partiti, nelle campagne elettorali e poi nelle manovre parlamentari. Dovremmo ricordare che la parola politica viene dal greco, vuol dire il discorso tra cittadini della polis (cioè della città, della comunità civile), per l’interesse generale. È a questo tipo di politica che il mio libro intende richiamare: perché (tornando alla Costituzione, art. 1) in Italia la sovranità appartiene al popolo. Da troppo tempo ce lo siamo dimenticato. Noi cittadini dobbiamo riprendere la parola per stimolare i professionisti della politica e i partiti a rivedere le proprie priorità, ubbidendo alla Costituzione e non alla forza cieca dei mercati».
Qualcuno, cominciando dal titolo del libro, “Azione popolare “, ha avvertito richiami populistici...
«Azione popolare, come il mio libro spiega chiaramente, è un’espressione tratta dal diritto romano, dove si intendeva per actio popularis il diritto del cittadino (da solo o con altri) di agire in giudizio in nome del pubblico interesse (o del bene comune). Questo antichissimo diritto, che è rimasto in vigore anche sotto gli imperatori romani (un regime certamente non democratico) ha assunto nuova forza e nuovo spessore con l’avvento degli ideali democratici di liberà e di eguaglianza. In democrazia, “azione popolare” non è populismo: vuol dire ricordarsi che, appunto, “la sovranità appartiene al popolo”, che il Parlamento e i governi agiscono in nome del popolo (cioè dei cittadini), e che pertanto fine delle leggi non può mai essere privare i cittadini dei loro diritti. Vale per la sanità e per il lavoro, vale per la scuola, la cultura, la tutela del paesaggio».
Professore, lei scrive che indignarsi non basta più, che contro l’indifferenza che uccide la democrazia e contro la tirannia antipolitica dei mercati bisogna rilanciare l’etica della cittadinanza e avverte che il pericolo peggiore, oggi, è la rinuncia senza avere la coscienza che «lo Stato siamo  noi», come diceva Calamandrei, e che anche i beni sono dei cittadini.
«Anche lo statuto dei beni pubblici appartiene a un orizzonte di riflessione giuridica che ha le sue radici più lontane nel diritto romano e nel Codice di Napoleone, che estese la sua validità all’Europa continentale. I beni pubblici sono la garanzia dei nostri diritti, una sorta di “portafoglio proprietario” che appartiene a tutti noi. I governi, di qualsiasi colore, che vogliono vendere e svendere il patrimonio pubblico agiscono contro l’interesse comune. Dobbiamo accorgercene, e non limitarci a lamentele o a cortei, ma argomentare (politicamente, eticamente, giuridicamente) in favore dei nostri diritti. Questo voleva dire Calamandrei quando, Costituzione alla mano, ripeteva: “Lo Stato siamo noi”».
Nel libro cita Corrado Alvaro, in particolare un articolo in cui lo scrittore di San Luca spiega come il Nord si è presa la parte del gran corruttore e il Sud quella del complice e corrotto. Quant’è attuale questa fotografia dell’Italia?
«Temo che Corrado Alvaro, se per nostra fortuna fosse ancora vivo, dovrebbe cambiare solo qualche sfumatura minima di quella sua diagnosi spietata. L’orrida congiura leghista, che di fatto ha conquistato poltrone e ministeri italiani agitando la bandiera della secessione del Nord dall’Italia, ha convinto molti italiani della pretesa “purezza” e “serietà” di un Nord di maniera, contrapposto a un Sud di corrotti, mafiosi e pigri. È una bestemmia, eppure l’abbiamo sopportata. Ora sappiamo che all’ombra di questa menzogna la Lega ha sviluppato politiche di corruzione. Alvaro aveva ragione anche quando rilevava il terribile contrasto fra il popolo italiano, che “sarebbe un vero serbatoio di élites”, tale da far diventare l’Italia “un Paese di qualità, di competenze grandi e piccole, sua sola risorsa per il domani” e, dall’altro lato, una classe politica in cui “trionfa la mezza cultura, conformismo e feticismo e mancanza di senso critico”».
Pure lei, come Alvaro, è calabrese. Qual è la sua idea di Calabria e che cosa servirebbe a questa antica regione per uscire definitivamente dalla sua emarginazione e dal sottosviluppo, caso unico, in un paese come l’Italia e in un’Europa che camminano con passo diverso?
«Ai calabresi serve prima di tutto recuperare la serena coscienza che non sono figli di un dio minore, che sono, anzi che siamo, italiani ed europei a pienissimo titolo, e che non dobbiamo aspettare la salvezza da fuori, ma da noi stessi. Che per costruire il futuro serve a poco rivendicare, che so, le glorie della Magna Grecia, di Gioacchino da Fiore, di Tommaso Campanella. Serve di più conoscere la storia recente d’Italia, gli ordinamenti della Repubblica, la Costituzione che non contempla Regioni programmaticamente svantaggiate. Se vi fosse più diffusa coscienza di questi principi elementari, i calabresi saprebbero scegliere meglio chi li amministra, ed esigere dai politici di mestiere una buona amministrazione delle proprie risorse, presupposto essenziale per aver voce in Italia e in Europa».

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