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Gela, sgominato gruppo
concorrente di "cosa nostra"

I provvedimenti, emessi dal gip Alessandra Bonaventura, su richiesta della Dda nissena, sono stati eseguiti con l'ausilio degli agenti del commissariato di Gela e delle questure di Asti e Pavia, nell'ambito di un'operazione denominata "Inferis". Il clan, fondato e diretto da Giuseppe Alferi - detenuto a Catanzaro - soprannominato "U Jerru", dal 2005 si sarebbe ritagliato uno spazio negli affari illeciti, contrapponendosi allo strapotere della Stidda e rendendosi autonomo da Cosa nostra, di cui però si dichiarava alleato. L'organizzazione criminale, insomma, si era ricavata uno spazio tra le due che operano nel territorio. Secondo gli investigatori, il nuovo sodalizio mafioso era dedito "alle estorsioni, alla gestione di un vasto giro di usura, alla ricettazione, all'imposizione del prezzo della frutta (in particolare delle angurie) con illecita concorrenza e usando violenza e minacce. Inoltre, era entrata nella raccolta di materiali ferrosi ai danni di commercianti e artigiani; nell'occupazione abusiva (e successiva vendita) di case popolari dell'Iacp. L'organizzazione disponeva di uomini, armi e mezzi. Organizzata in "squadre", eseguiva furti di denaro e gioielli nelle abitazioni in città, mentre nelle campagne andava alla ricerca di ferro, rame, alluminio, e di materiale di valore. Rubavano di tutto: auto, furgoni, attrezzature e automezzi industriali per poi restituirli con il cosiddetto metodo del "cavallo di ritorno", cioé dietro pagamento di un riscatto in denaro. (ANSA).

Anche se detenuto nel carcere di Catanzaro, il boss Giuseppe Alferi comunicava con l'esterno, dando ordini, attraverso lo scambio dei pacchetti di fazzolettini che portavano nel parlatorio del carcere sia lui che le persone che lo andavano a trovare, soprattutto la moglie, Silvana Cialdino, e l'amante Maria Azzarelli. Era quest'ultima che nascondeva le armi, prestava denaro a usura, ricettava la refurtiva e occupava gli immobili, svolgendo (in assenza del capo) funzioni di raccordo e di controllo della banda. Una terza donna, Antonella Bignola, dipendente della sala Bingo di Gela, procacciava i clienti indebitati ai quali prestare denaro a usura. La ferocia della banda si manifestava con attentati dinamitardi e incendiari ad auto e negozi, spari contro saracinesche, vetrine e abitazioni e con atti intimidatori anche in danno di integerrimi esponenti delle forze dell'ordine. Un consistente contributo alle indagini è stato dato da Emanuele Cascino, figlioccio e fedelissimo del boss, che per dimostrare la propria devozione al "padrino" se ne era fatto tatuare il volto tra spalle e schiena. Ma sfuggito a tre agguati, per contrasti esplosi all'interno della banda, Cascino é scappato da Gela, rifugiandosi al Nord, e ha deciso di collaborare con la giustizia, malgrado Alferi gli abbia fatto sapere che era disposto a riprenderlo garantendogli ogni immunità. I 28 arrestati sono tutti accusati di associazione mafiosa "finalizzata a commettere delitti di ogni genere e, principalmente estorsioni, furti, danneggiamenti col fuoco, usura, occupazione abusiva di immobili ed altri ancora".

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