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Spaghetti western?
No, grazie...

di Anna Mallamo

DJANGO UNCHAINED, di Quentin Tarantino, con Jamie Foxx, Leonardo DiCaprio, Christoph Waltz, Samuel L. Jackson, Kerry Washington, Don Johnson. USA. 165 min.
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Cominciamo subito col chiarire una cosa: “Django Unchained” non è uno spaghetti western. Non più di quanto “Bastardi senza gloria” sia un film di guerra o i talk-show televisivi un esercizio di democrazia. Abbiate pazienza, ma noi giornalisti tendiamo a semplificare la realtà, che già, purtroppo per lei, tende a somigliare alla cattiva televisione. Ma per fortuna, a volte arriva il cinema, a risistemare le sorti e costruirne un’altra, di realtà. Di sana pianta. Ecco, Quentin Tarantino di mestiere fa questo: costruisce altri mondi, perfettamente abitabili. E tutti fatti di cinema. Così può capitare che dalla sua passione per i film di serie B (che poi sono quelli con cui un regista si costruisce la “cassetta per gli attrezzi”, in un certo senso), e in particolare i nostri spaghetti western abbia preso – da bravo trovarobe qual è – appunto tutti i materiali che potevano servirgli.

Perché è evidente, guardando la storia di Django (Jamie Foxx), schiavo liberato divenuto cacciatore di taglie, che tutta la materia prima, sì proprio i chiodi, le assi, i costumi, i fondali, i cieli arancioni, le praterie, le montagne innevate, i cespugli di cotone, le crinoline delle prostitute, i cilindri dei (falsi) gentiluomini, le mutande lunghe dei bovari, le scene “tutti contro uno”, lo schiavo fedele e il padrone codardo, le bibbie appuntate sul petto Tarantino li ha presi tutti da lì. Dai film di serie B e C di cui è erudito conoscitore e scoliaste raffinatissimo, capace di estrarre, da quella massa obiettivamente enorme di sceneggiature, riprese, narrazioni a volte davvero infime (ma a volte no, sia detto), il meglio: lo specifico cinematografico. Praticamente, la carta e la colla con cui fare la cartapesta magnifica confezionata, di volta in volta, come “film di guerra” che non è film di guerra (semmai, “Bastardi senza gloria” è un film francese con un po’ di western), come “cappa e spada giapponesi” (la dizione per cinefili è “chambara”, ma noi mica siamo Mereghetti) che non sono cappa e spada giapponesi (semmai, “Kill Bill” è uno spaghetti western), eccetera eccetera.

Django viene da tutto questo (ma anche tanto altro: solo un Umberto Eco potrebbe collazionare per intero le fonti di Tarantino, che sembra siano centinaia, nascoste in ogni inquadratura, in ogni nome o soprannome, in ogni trovata o ri-trovata). A partire dal nome: da quel fortunato “Django” di Sergio Corbucci, del 1966, con il roccioso Franco Nero (che, negli anni, ha conservato la mineralità della recitazione, come si vede dal cameo che Tarantino, proprio in omaggio a quel film, gli ha riservato, con tanto di inquadratura frontale coi due Django uno accanto all’altro al bancone del bar, a dirci che «la “d” di Django è muta»: nelle migliori citazioni la “d” si vede, ma è muta, infatti), dal quale sono piovuti innumerevoli rimbalzi, versioni, citazioni, in altri generi e arti, horror e fumetto compresi. Alla fine di  questa strada lastricata di citazioni e ottime intenzioni c’è la storia di Django, appunto “unchained”, che può voler dire tanto “liberato dalle catene” quanto “scatenato”, tanto per restare nella polisemia tarantiniana.

E lì incontriamo l’altro protagonista del film: la schiavitù. Quell’immenso, spoglio e insanguinato “ground zero” su cui sorge l’America tutta (che poi viene facile capire perché sia ancora un luogo in cui può essere vietato fumare in casa propria ma non tenerci dieci fucili mitragliatori d’assalto. E chi si lamenta della troppa violenza – tutta finta ed esagerata – di Tarantino probabilmente non vede le fonti vere e le riserve protette di quella violenza). Spike Lee ha arricciato il naso e detto che no, lui non lo vedrà, “Django Unchained”, perché «qui la schiavitù è stata un olocausto, non uno spaghetti western». Che poi è esattamente quel che sostiene Tarantino (quindi qualcuno dica a Spike Lee che è male informato, o che comunque dovrebbe smettere di pensare d’essere l’unico autorizzato a parlare della condizione dei neri). La schiavitù – così come appare in “Django” – è paragonabile all’olocausto degli ebrei di “Bastardi senza gloria”: un’ingiustizia epocale, immensa, vergognosa e flagrante. Praticata da una nazione intera, articolata in milioni di sfumature di crudeltà e idiozia (e un bel catalogo di queste c’è, nel film: mai pedagogico e retorico,  sempre narrativamente risolto, efficace, lucido e vero). Sicché la rivalsa di Django è, metaforicamente, la rivalsa di un popolo. La sua libertà è una libertà che vale per tutti. E più di tutti per lo spettatore, utilizzatore finale della magnifica catarsi e progressiva di cui Tarantino è specialista e magistrale orchestratore.

C’è un po’ di Eschilo e un po’ di Frankenstein, in Tarantino.  Così come nel suo western c’è un po’ del mito di Sigfrido (Django salva la sua Brunhilda-Kerry Washington) e un po’ dei samurai. E tutto quest’andirivieni di immaginari non diventa un mappazzone indigesto, ma – grazie a una scrittura nitida, una regia immaginifica ma ferrea, un senso del dialogo e dell’azione adamantino e una stupenda direzione degli attori – un film a più livelli tutti godibili e non di rado assoluti.
Menzione speciale per Cristoph Waltz, già premio Oscar e Golden Globe per la sua interpretazione poliglotta del “cacciatore di ebrei” Hans Landa, che qui, in un ulteriore squisito gioco metatestuale e metacinematografico, è sempre un tedesco, ma stavolta “buono”, turbato dalla crudeltà rozza e gratuita degli schiavisti (cioè tutti gli americani, proprio quelli che nel film precedente sono i “buoni”, giustizieri della follia razzista dei nazisti). Che quasi verrebbe da credere alla superiorità culturale europea, se poi non ci fosse da giustificare quella cosa lì, appunto, la Shoah, nemmeno un secolo dopo. Waltz, che qui è il dottor Dr. King Schultz, forbito e tagliente avventuriero e cacciatore di taglie, ha già conquistato proprio nei giorni scorsi un Golden Globe e una nomination per i prossimi Oscar. Prosit.

Nomination anche per Leonardo DiCaprio, che nel film è il luciferino monsieur Calvin Candie (con quella faccetta da bambina barbuta e il nome da candito), proprietario di piantagioni, uomini e donne, esaltato seguace della frenologia che giustificherebbe, a suo dire, la differenza tra razze e la superiorità bianca: un vero nazista dell’Illinois. E chi dice che Tarantino è tutto schizzi di sangue non capisce proprio nulla: sangue ne viene sparso da verniciarci, letteralmente, le pareti, con tanto di fontane, esplosioni e lapilli, ma la vera violenza è in certi dialoghi, in certe tensioni da nodo allo stomaco, in certe maschere umane, in quei vicoli ciechi narrativi in cui Tarantino ama cacciare i suoi personaggi migliori (ricordate la scena della taverna in “Bastardi senza gloria”?), solo per trovare la via d’uscita più – letteralmente – esplosiva.
Una nomination, infine, la diamo noi all’eccelso Samuel L. Jackson nei panni di Stephen, vecchio servo di casa Candie, forse l’esempio più crudele della schiavitù: quando la vittima s’identifica col carnefice. Sui passi malfermi dello zoppo Stephen, sulla sua ambigua posizione di servo-nonno-complice si muove un implacabile, spietato ingranaggio narrativo ed emotivo.

La trama, comunque, non ve la dico. Sappiate che, tanto, dentro c’è tutto quello che vi serve e che ricordate dei western e forse del cinema, anche a vostra insaputa: dai tramonti dell’Arizona al saloon, all’eroe che salva l’eroina, alla morte del giusto e a quella dell’ingiusto. Una catarsi non si nega a nessuno, in fondo.
Tarantino ha annunciato “Diango” come secondo capitolo di una trilogia cominciata con “Bastardi senza gloria”. Non sappiamo quale sarà – dopo il nazismo e la schiavitù, e scusate se è poco – l’ingiustizia sanata (con carneficina dei cattivi e incendio purificatore finale) nel terzo, ma ci piacerebbe tanto dargli un’idea. Quentin, che ne dici di vendicarci, con la tua regia giustizialista, della nostra Seconda Repubblica?

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