Lunedì 25 Novembre 2024

La tv di tutti
un po’ alta un po’ bassa:
il Festival è un ossimoro

Diciamocelo: Sanremo è una mummia. Anzi un Frankenstein. Cose che vanno fortissimo, sullo schermo. Piacciono a tutti (pure a me, sia chiaro). Non è un caso se nella quarta serata, che tradizionalmente è di stallo, gli ascolti si sono impennati: perché è andato in scena Sanremo com’era. Com’eravamo. Ogni anno c’è quest’impercettibile confronto che facciamo, a nostra insaputa. Com’era e com’è, come siamo. Il polpettone che non sarà mai quello che faceva la nonna, anche se allora non esisteva Pomì e nemmeno Masterchef. Perché l’ossimoro Sanremo –e Fabio Fazio, che ama e fa la tv d'ossimori, combinando arditamente linguaggi diversi, alti e bassi, è stato brvissimo a sfruttarlo –è proprio questo: è relitto d'un mondo e d'una televisione –e persino d'una industria discografica –estinti, ma in qualche suo modo istituzional- nostalgico-formalinico appare quantomeno vegeto, se non proprio vivo, tanto che ogni anno stiamo comunque tutti lì a sbirciarlo, commentarlo, seguirlo. Sia pure nel modo in cui oggi si segue la tv (e l’Auditel dovrà tenerne conto, prima o poi): metà su YouTube e metà sui social, tra tweet e status, polverizzata in video, registrazioni, citazioni e passaparola. Che poi sembra davvero l’unico modo possibile di seguire una trasmissione-monstre come Sanremo, che va al di là della resistenza umana: oltre venti ore di televisione in cinque giorni; trentasei canzoni; ospiti d’ogni genere, da quelli puramente decorativi (Bar Refaeli, tanto per non fare nomi) a quelli istituzionali (ave Baudo, sanremituri te salutant), a quelli realmente straordinari (Bollani e Veloso, o Harding, per dire). Roba da overdose. È un fatto di sopravvivenza staccarsi, diluire, fare zapping, astenersi e ritornare (come nelle vere storie d'amore). Tanto lo sappiamo, le cose che di questo Sanremo resteranno non sono le canzoni (non lo sono più da almeno vent’anni e comunque viaggiano sui loro circuiti liquidi della Rete): sono i video di Crozza e dei suoi “contestatori”; i monologhi impertinenti ma pertinentissimi della Littizzetto (è lei che porta i pantaloni, sul palco); le perle di Veloso-Bollani; il coro verdiano; Wagner e “Volare”; il genio di Elio che tecnicamente non canta, fa performance situazioniste (no, dico: far recitare Prévert a Rocco Siffredi...). Non è poco. Anzi, è moltissimo. Perché sono quei punti di tenuta, anzi di qualità, forse d’eccellenza, quegli innesti che vivificano e reggono assieme il corpo tiepido di Sanremo, il Frankenstein, il caro estinto. Lunga vita a Sanremo.  

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