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Xi, vi presento
la Cina del
Terzo millennio

 

di Piero Orteca

xi jinping

C’è chi arranca su una vecchia bici, con i tubolari a tracolla, lungo i tornanti dello Stelvio e c’è, invece, chi aggredisce le ripide pareti del Mortirolo su una specie di Harley Davidson, facendo pure le impennate. Gli appassionati di ciclismo hanno capito al volo di cosa stiamo parlando. A tutti gli altri, basti sapere che, per vincere le tappe, non sono sufficienti le chiacchiere, ma ci vogliono mezzi adatti e, soprattutto, gambe come prosciutti e fiato quanto una vaporiera. Punto. Tutto il resto sono discorsi da bar o, nel più raffinato dei casi, inutili endecasillabi, destinati a lasciare “el pueblo unido” con le pance vuote e i cervelli frastornati dai blablabla. Che in Europa (e nell’Italietta di questi tempi) vanno per la maggiore. Parole e musica, liberamente trasposti, sono del nuovo presidente della Cina, Xi Jinping, scelto dal Partito comunista per guidare il Paese più capitalista del mondo. Sembra un “o s s imoro” (fa fino dirlo), ma tale apparente paradosso descrive benissimo l’atmosfera che si respira nel colosso asiatico. Dove il colore di moda non è più il rosso, scaraventato con estrema disinvoltura nella pattumiera della storia, ma il verde brillante. Quello dei dollari. “Proletari di tutto il mondo, arricchitevi”, insomma, alla faccia del grande Mao, che, tra mille promesse e tanti disastri, aveva cercato di modellare la Nuova Cina. Un’operazione che gli era riuscita maluccio, vista la catasta di morti e il ciclo di carestie senza fine innestato dalle sue paturnie. Sgomberato il baraccone dal Vecchio Timoniere, il caicco è diventato una splendida nave da crociera, nel momento in cui sono cambiati capitano, equipaggio e, soprattutto, rotta. Occhio però: perché non tutto quello che luce è oro. E se i numeri, stratosferici, ci dicono che oggi la Cina viaggia come un’a uto di Formula Uno, con gli pneumatici che manco toccano terra, la prima chiazza d’olio di cui è disseminata la pista potrebbe diventare un problema serio. Ma andiamo con ordine. Il nuovo paradiso dei capitalisti senza macchia e senza paura (e soprattutto senza regole) prospera anche in tempi di crisi. Gli ultimi dati parlano di un Prodotto interno lordo quasi al +8% (Italia -2,1%) e di una produzione industriale da Ko (+10,3%), specie se confrontata a quella di altri derelitti (l’Italia delle catastrofi, tanto per non fare nomi) che si stanno suicidando (-6,6%, sì avete letto bene). Vi risparmiamo gli altri indicatori per non farvi venire un travaso di bile. Forse, per chiudere il discorso e metterci il cuore in pace, basterà citare il “differenziale” con l’A m e r ica di Obama per quanto riguarda la bilancia dei conti correnti: quasi 700 miliardi di dollari a favore di Pechino. E, infatti, alla Casa Bianca, democratici e repubblicani hanno deciso di sotterrare l’ascia di guerra, prima che al Paese pignorino sedie, brande e tavolini. Parlavamo di Xi, diventato presidente in maniera plebiscitaria, giovedì scorso, dopo che era stato nominato capo del partito. La sua scelta si accompagna a quella del nuovo premier Li Keqiang, che ha ricevuto 2940 voti a favore e 3 contro, tanto per capire di cosa stiamo parlando. Li parla un inglese oxoniano, e ha un PhD in economia. Vicinissimo a Hu Jintao, molti vedono in lui un riformatore non giovanissimo (ha 57 anni), ma certamente più brillante di certi vecchi caproni europei, attaccati col mastice alle poltrone. Il tandem Li-Xi (quest’ultimo ha avuto, praticamente la totalità dei consensi) è l’a c c o ppiata vincente con cui la Cina spera di raccogliere le sfide del Terzo millennio. Scelte viste con favore da Obama, che si è premurato di annunciare una visita dei suoi proconsoli (il ministro del Tesoro Jacob Lew e il Segretario di Stato John Kerry) per “sbagnare” il nuovo corso. Ma la rivoluzione in salsa pechinese non si ferma qui. La squadra dei “m iracoli” prevede anche altri brillanti riformatori, come Wang Yang (vicepremier), o diplomatici di grande esperienza (Wang Yi, nuovo ministro degli Esteri, è stato ambasciatore in un Paese cardine per la “foreign policy” cinese, il Giappone, e responsabile delle delicate relazioni con Taiwan). Alle Finanze è andato un “espertissimo” del calibro di Lou Jiwei (già incaricato di gestire i Fondi sovrani), mentre è stato confermato al vertice della Banca Centrale un vecchio marpione come Zhou Xiaochouan. Questo mix equilibrato di “saggi” e illuminati innovatori dovrebbe gestire per almeno un decennio la crescita del colosso asiatico verso “nuovi paradisi”. Certo, durante il trionfalistico discorso di commiato dell’ex premier Wen Jiabao, che snocciolava dati e cifre sui traguardi raggiunti (20 milioni di nuove case, 20 mila chilometri di ferrovie in più e altri 600 mila chilometri di strade), gli osservatori hanno notato l’impassibilità di Xi, conscio del fatto che il difficile viene proprio adesso. Wen ha citato, ad esempio, l’e m e r g e nza ambientale, una mezza catastrofe che le autorità cinesi finora non hanno saputo affrontare. L’esigenza di abbassare i costi dell’energia, infatti, cozza con un inquinamento da brivido: Pechino, per dare un’idea, apre un paio di centrali a carbone ogni mese. Ci sono, poi i sassolini e le pietrazze che i cinesi aspettano di togliersi dalle scarpe in politica estera. Giappone, Corea del Nord, e Taiwan sono alcuni grani di un rosario più o meno doloroso. Il resto riguarda i rapporti agro-dolci con l’America di Obama. Un’aquila con cui convivere o un pollo da spolpare?

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