Ora basta. Si continua a prendere scoppole e pedatone nel sedere e il nostro governo le spaccia per “massoterapia”. Ci vuole una bella faccia tosta a celebrare l’ultima puntata della tragicommedia che vede, sfortunati protagonisti, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, i marò arrestati dagli indiani con l’accusa di avere ucciso, in un’operazione anti-pirateria, due pescatori del Kerala. I fucilieri di Marina sono imputati in un procedimento più lento di una tartaruga zoppa, che va avanti (si fa per dire) da un anno, tra vampate nazionalistiche, studiati cavilli giuridici e cialtroneschi interessi di parte. Cominciamo dalla fine. L’ennesimo giro di valzer degli indiani, che si sono “rimangiati” le assicurazioni fornite sulla sorte dei marò, sta sollevando un vespaio di polemiche. Anche se, in serata, è arrivata un’ulteriore precisazione del ministro degli Esteri Khurshid, il quale ribadisce che il tipo di reato considerato “non prevede la pena di morte”. In pratica, il governo di Nuova Delhi ha fatto marcia indietro due volte, prima smentendo quanto aveva dichiarato il giorno prima lo stesso Khurshid (col ministro della Giustizia Kumar) e poi riaggiustando il tiro. Un balletto che ha suscitato le ire del nostro sottosegretario, Staffan De Mistura (che dice di avere “le carte”) e del capo di Stato maggiore della Difesa, ammiraglio Binelli Mantelli, che parla, senza peli sulla lingua, di “farsa”. Era questa, infatti, la “pezza” (in tutti i sensi) messa da Palazzo Chigi per giustificare il clamoroso voltafaccia con cui era stata smentita, a sua volta, la presa di posizione del ministro degli Esteri (Terzi di Sant’Agata), che aveva annunciato, “urbi et orbi”, che i due militari sarebbero rimasti in Italia. Apriti cielo! Gli indiani avevano minacciato fuoco e fiamme, incartandosi a loro volta e commettendo la bestialità di prendersela col nostro ambasciatore, Mancini. Il diplomatico, però, è blindato dalla Convenzione di Ginevra, cosa che, evidentemente, per gli inferociti asiatici, conta quanto il due di briscola. Per dividere, poi, ecumenicamente il copione brechtiano (scegliamo l’Opera da Tre Soldi, tanto per restare in tema) Palazzo Chigi, rispedendo al mittente i due “marines” (che nel frattempo erano anche stati indagati in Italia), li ha sostanzialmente sbolognati nelle mani della giustizia indiana, riconoscendo la sua giurisdizione. Con la non trascurabile postilla che l’imbufalito governatore del Kerala adesso chiede (in maniera inquietante) che siano giudicati laggiù e non da un Tribunale speciale della capitale. A Roma hanno sottostimato la ”rogna” sin dall’inizio, forse perché pensavano di uscirsene con quattro soldi d’indennizzo. Alla fine, gli indiani hanno rotto le uova (per usare un eufemismo) e noi abbiamo messo la padella sul fuoco per fare la frittata. Battendo tutti i record, perché siamo riusciti persino a ustionarci. La vicenda è la metafora di un Paese (il nostro, per capirci) che dopo avere smarrito la bussola ha perso pure la faccia. Forse ci si è accorti (in ritardo) che qualcuno ci stava facendo le scarpe e ora si tenta maldestramente di recuperare, dopo che i buoi sono scappati dalla stalla. Diciamo che la “realpolitik” ha prevalso, nonostante cento contorsioni e mille tuffi carpiati “diplomatici”, tutti regolarmente finiti sul fondo di una piscina alla quale avevano tolto l’acqua. In ballo c’erano contratti stramiliardari e un altro sacco di annessi e connessi. E qui veniamo al nocciolo della questione, che balza evidente dopo avere letto e riletto articoli, report, inchieste e prese di posizione sulla stampa indiana. La netta sensazione è che siamo capitati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Insomma, se la fortuna è orba, la scalogna ci vede benissimo. Il tragico incidente che ha coinvolto i marò stato il trampolino per scatenare una campagna mediatica contro il vero bersaglio di tutto l’ambaradan: Sonia Maino Gandhi, presidente del Partito del Congresso e vedova dell’ex premier Rajiv, ucciso in un attentato, così come la suocera Indira. Italiana, e per questo maldigerita da mezza India e tollerata dall’altra metà, Sonia ha dovuto barcamenarsi per raccogliere l’eredità politica del marito, mentre i nemici e, soprattutto, gli “amici”, la guardavano di sguincio. È uscita allo scoperto, dopo un anno, solo l’altro giorno, per pronunciare poche parole di “messa in guardia” rivolte all’Italia. Era il minimo, specie dopo i sanguinosi attacchi ai quali è stata sottoposta da estremisti indù e anche da semplici “patrioti”. Un esempio? Eccovi, for the record, alcune prese di posizione apparse su “India Times”. “Sonia è una signora che regna sulla più grande democrazia del mondo solo perché ha la pelle bianca. È una ex cameriera incapace di parlare per cinque minuti di fila. Pratica una religione che non è quella del 90% degli indiani...” e via insultando di questo passo. Altri “blogger” avanzano squinternati sospetti di corruzione e di porcherie assortite. Naturalmente coinvolgendo gli odiati “italiani”, diventati improvvisamente il cancro del mondo. Sulle nostre teste, per ora, piove di tutto e di più (“mafiosi, inaffidabili, truffatori”). Ma ciò che lascia di stucco è l’atteggiamento dell’Europa, vero gigante dai piedi di cartone. Quando gli indiani hanno minacciato di far pagare le pere al nostro ambasciatore, la “commissaria” agli Esteri dell’Unione, Lady Ashton, ha farfugliato “pissipissi baobao” e poi si è girata, con sussiego, dall’altro lato. Forse per la baronessa l’Italia è un fastidio, mentre l’India resta ancora il bazar dove i suoi avi andavano a fare la spesa. Senza pagare.
India, il vero
bersaglio è
Sonia Gandhi
di Piero Orteca
Caricamento commenti
Commenta la notizia