Il bollettino di “guerra” in arrivo dalla Corea del Nord è di quelli che, a prima vista, fanno rizzare il pelo. Nonostante la fame si tagli col coltello, è stato dato il via libera “a un attacco nucleare” contro Usa e Corea del Sud, allo spostamento di vettori balistici di ultima generazione e all’aumento “immediato” nella produzione di artiglieria (di pane e companatico, ovviamente, manco a parlarne). Infine, per completare l’opera, è partito anche un minaccioso “invito”a fare fagotto, rivolto alle ambasciate, ultima goccia di un beverone avvelenato offerto alle sbigottite Cancellerie occidentali. La Cina, oltre a qualche “blablabla” di circostanza, praticamente non ha battuto ciglio, dimostrando ancora una volta che se il rottweiler rischia di azzannare tutti, forse a Pechino qualcuno ha allentato la catena. Anche se, proprio ieri, il ministro degli Esteri, Wang Yi, ha “rassicurato” il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, a dimostrazione (qualora ce ne fosse stato bisogno) che ai nordcoreani, ogni giorno, arriva proprio dal principale (o, meglio, unico) alleato, il copione da seguire. Cioè, per farla breve, il “mattinale” delle cose da dire e di quelle che, invece, bisogna poi effettivamente fare. Più chiaro di così…Ma andiamo con ordine. Washington, per la serie “non ci credo, ma mi preparo lo stesso”, ha già messo le mani avanti, spedendo in tutta fretta sistemi anti-missile a Guam (oltre a quelli già presenti nell’area) e proclamando uno stato d’allerta “rosso” per le sue truppe, dall’Estremo Oriente fino alle Filippine. Pensierino della sera: ma che sta succedendo dalle parti di Pyongyang? Improvvisamente hanno scavalcato tutti il muro della clinica neurodeliri? Calma e gesso. Tanto per capirci, sani di testa non lo sono mai stati, però una lettura meno superficiale dei fatti servirà a indovinare la logica dei “duri e puri”nordcoreani. E di chi gli sta dietro. L’infoiamento nucleare di Kim Jong-Un, ultimo rampollo della più decrepita dinastia comunista della storia, è solo la continuazione della partita a poker che, per tanti lustri, ha giocato suo padre buonanima. Kim Jong-Il, infatti, mentre dalle maniche gli uscivano assi di tutti i tipi, rilanciava continuamente, sapendo che nessuno avrebbe avuto il fegato (o la follia) di andare a vedere le sue carte. Insomma, è stato un formidabile biscazziere (o imbroglione, fate voi) che ha utilizzato senza ritegno bombe atomiche, missili di ogni specie, virus e batteri micidiali per riempirsi la greppia e stipulare una sorta di “assicurazione sulla vita” (del regime). La sua “dottrina delle scatolette”funzionava né più e né meno come il “pizzo”: tu sganci e io non ti brucio la saracinesca. Di fronte a questo ricatto, tutto coppola storta e bandiera rossa, per il quieto vivere (mettiamola così) gli altri polli seduti al tavolo verde hanno dovuto ingoiare una cofanata di rospi. E hanno scelto, prudentemente, di farsi spennare. A cominciare dagli americani, che da Clinton in poi (e sottobanco) hanno spedito ai Kim ostriche e champagne, nel senso che nei Palazzi del potere di Pyongyang è arrivato di tutto e di più. Mentre, dentro le fabbriche del Paese, che probabilmente può vantare l’economia più disastrata del mondo, sbarcavano materie prime, semilavorati e benzina. Successivamente, Kim Jong-Il, dopo il suo primo “bluff”, è tornato alla carica, lanciandosi in un programma di armamenti missilistici (con relative esportazioni urbi et orbi) e di arricchimento dell’uranio, che ha fatto sobbalzare dalla sedia mezza Casa Bianca e tolto per diversi anni il sonno ai responsabili del Dipartimento di Stato e, soprattutto, del Pentagono. Per chiudere il principale reattore nucleare (Jongbyon), l’illustrissimo “Caro Leader” ha chiesto, in quell’occasione, aiuti energetici (50 mila tonnellate di greggio sull’unghia e un milione di tonnellate di petrolio, per completare l’estorsione) più altri annessi e connessi. Tutto sommato un “piatto” misero, che lasciava presagire un rilancio al buio, come in questi giorni sta avvenendo. Occorre, però, tenere presente una cosa: la Corea del Nord è praticamente sfamata (in senso letterale) dalla Cina. Secondo Nicholas Eberstadt (World Bank) il colosso asiatico gira annualmente allo scomodo alleato il 90% dell’energia, l’80% dei beni di consumo e il 45% di ciò che a Pyongyang mettono sotto i denti. In totale, un export per un controvalore di oltre 2 miliardi di dollari. Senza contare aerei, carri armati e proiettili di ogni calibro. In cambio Pechino importa, oltre il fiume Yalu, materie prime per soli 750 milioni di dollari. Ma c’è di più. Un report del Congresso Usa dice che gli aiuti cinesi arrivano direttamente nelle tasche e nelle dispense dei militari e dei vip del partito, mentre le “restatine” del “World Food Program” vengono distribuite alla popolazione, che certo non sciala. Shen Dingli, su “China Security” spiega la visione strategica dell’ex Celeste Impero e l’utilizzo che viene fatto delle paturnie di Kim Jong-Un. Dunque, il regime più chiuso del mondo funge da spina nel fianco di Stati Uniti e Giappone, costretti a tenere in piedi, in quell’area, un caravanserraglio di soldati per pararsi una botta sempre possibile. Nel frattempo, detto tra di noi, Pechino continua a sognarsi, di notte e di giorno, Taiwan. Attenzione, però: perché, come avverte Daniel Sneider (“Asia-Pacific Research Center”di Stanford), se la catena che tiene al guinzaglio la Corea del Nord si dovesse spezzare sarebbero cavoli amari. Di quelli grossi. Il rottweiler, a quel punto, zompa di qua e zompa di là, diventerebbe incontrollabile e la Cina perderebbe asino e carrube, dato che, con un eventuale e catastrofico conflitto, si ritroverebbe milioni di rifugiati alle porte di casa. L’ultima riflessione riguarda proprio il livello delle provocazioni nordcoreane, che ha raggiunto una misura mai conosciuta e che contraddice, all’apparenza, anche la strategia “tanto e non più”dei cinesi. Qualcuno (forse) gioca sporco. Circolano spifferi su un raffinato sfonda- piedi fatto al nuovo presidente Xi Jinping dagli “amici” della vecchia guardia, che evidentemente non gradiscono doppi petti, sgargianti cravatte e fiammanti berline. In fondo, vuoi mettere la nostalgia per i gloriosi tempi del grande Mao, quando dominavano le vecchie grisaglie d’ordinanza, dilagava il fascino dei risciò e il “pane della patria” erano le eroiche scodelle di riso, regolarmente scotto?