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Il Pg: confermate
le pene a D’Amico
e Bisognano

 

 

di Nuccio Anselmo

L’udienza è andata avanti per parecchie ore in corte d’appello, l’altra mattina, al processo di secondo grado dell’operazione antimafia “Sistema”. In questo troncone sono imputati i boss Carmelo Bisognano, capo dei “Mazzarroti” e ritenuto per anni il referente del clan mafioso dei barcellonesi per il territorio di Mazzarrà Sant’Andrea, che è da tempo collaboratore di giustizia, e poi Carmelo D’Amico, indicato come uno dei boss del clan dei barcellonesi. In primo grado furono giudicati con il giudizio abbreviato: condanna a 10 anni e 8 mesi perD’Amico, e a 7 anni e 10 mesi per Bisognano. La “Sistema” è nata dalle dichiarazioni dell’architetto barcellonese Maurizio Sebastiano Marchetta, che ha raccontato d’aver pagato per lungo tempo il pizzo alla mafia barcellonese, chiamando in causa tra gli altri anche Bisognano e D’Amico. E proprio di queste pesanti condanne ai due boss il sostituto procuratore generale Salvatore Scaramuzza ha chiesto la conferma alla corte di secondo grado presieduta dal giudice Attilio Faranda nel corso dell’ultima udienza. Il magistrato dell’accusa lo ha fatto nel corso di una lunga e complessa requisitoria, che è durata oltre un’ora e s’è ancorata ad un quadro processuale iniziale che secondo il suo ragionamento è cambiato nel corso del dibattimento. Perché accanto alla conferma delle due condanne il sostituto Pg Scaramuzza ha chiesto anche la trasmissione degli atti alla Procura per lo stesso Marchetta e per il boss barcellonese Salvatore “Sem” Di Salvo, per anni considerato il “reggente” della famiglia mafiosa del Longano. Nei confronti di Marchetta il Pg Scamaruzza ha chiesto infatti di procedere per i reati di false dichiarazioni nel corso del dibattimento e concorso esterno all’associazione mafiosa barcellonese, mentre nei confronti di Di Salvo ha chiesto di valutare la sussistenza del reato di concorso in estorsione ai danni dell’impresa dei Marchetta, la Cogemar, proprio sulla scorta di quanto ha dichiarato in aula in una della udienze scorse il padre di Marchetta, nel corso della sua lunga testimonianza, cioé - semplificando -, che in alcuni casi sarebbe stato proprio Di Salvo ad incassare alcune rate del “pizzo” imposto alla “Cogemar” negli anni passati. Un’altra parte fondamentale dell’udienza è stata quella delle produzioni documentali dei vari difensori, ovvero gli avvocati Fabio Repici, Maria Cicero, Giuseppe Lo Presti e Tommaso Calderone, impegnati nella difesa dei due imputati, e Ugo Colonna, che rappresentata la parte civile, l’architetto Marchetta. Produzioni documentali che sono state tutte accolte dal collegio di appello. Eccone solo alcune. L’avvocato Calderone ha per esempio prodotto una documentazione che proverebbe l’attuale sussistenza di un rapporto societario dei Marchetta, Maurizio e Carmelo, detto “Milo”, nella “Athena Immobiliare”, costituita all’inizio negli anni 2000 con Carmelo Mastroeni, ovvero uno dei soggetti ritenuto in passato prestanome di Di Salvo. Ha prodotto altri atti relativi a otto casi di “Ati”, ovvero raggruppamenti temporanei di impresa in varie parti della Sicilia, tra la “Cogemar”, l’impresa dei Marchetta, e la “Edilscavi” di Mastroeni. L’avvocato Repici ha prodotto copia di un esposto anonimo circolato nell’aprile del 2011 in cui si prospettava un complotto di avvocati, giornalisti e investigatori teso ad orientare le dichiarazioni del pentito Bisognano. E in relazione a questo esposto l’avvocato Repici ha inoltre prodotto un accertamento investigativo della Polizia postale di Catania, in cui si accerta che l’esposto anonimo è stato inviato da uno dei computer in uso negli uffici della Cogemar di via Kennedy a Barcellona, ovvero l’impresa dei Marchetta. L’avvocato Calderone ha inoltre prodotto una sere di fotografie che ritrarrebbero Di Salvo e Marchetta durante la partecipazione insieme ad una crociera, con partenza da Bari. La prossima udienza si terrà il 31 maggio, e si aprirà il ciclo dei vari interventi dei difensori. Il 18 giugno, altra tappa già fissata, sarà probabilmente sentenza per uno degli snodi processuali più “caldi” di questi ultimi anni.

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