«Le montagne sono piene di gente che non risponde ad alcuna autorità, dove banditi e rinnegati trovano rifugio per sfuggire alla legge. E ciò è contrario ai nostri interessi» Sono parole del generale zarista Alexei Petrovich Ermolov (1820), riportate da Charles King nel suo libro “Lo spettro della libertà: una storia del Caucaso”. Regione dimenticata da tutti, tranne nei momenti in cui torna prepotentemente alla ribalta per guerre e guerriglie tribali, scannamenti assortiti e terrorismo. In questi giorni, l’attentato di Boston e la successiva caccia all’uomo, che ha fatto individuare gli autori, due fratelli daghestano- ceceni, ripropone il problema della connubio o, per essere più chiari, della miscela esplosiva creata dalla fusione tra fondamentalismo islamico e pulsioni nazionalistiche. Intendiamoci, i guai non nascono mai per caso. L’i m p e r i a l ismo russo, espressosi senza pietà dall’età degli zar fino al settantennio sovietico, è stato un tritacarne che ha inghiottito e maciullato religioni, culture, nazionalità e tradizioni locali. Nessuna sorpresa, dunque, se quando, dopo la caduta del Muro di Berlino, gli scarponi chiodati dell’Armata Rossa non si sono più sentiti, i popoli della regione hanno rialzato la testa, aggrappandosi a tutto quello che si muoveva. Scomparsa la “colla” sovietica, le tessere del mosaico caucasico hanno ricominciato a traballare. E da sotto i tappeti della storia sono ricomparse polveri tossiche, antiche inimicizie che hanno, di fatto, balcanizzato l’intera area. Il resto è stato quasi “fisiologico”: attentati, violenta reazione russa e disintegrazione territoriale. Dove, come molto saggiamente osservava Ralf Dahrendorf, ogni antica minoranza è diventata, paradossalmente, maggioranza di un’altra minoranza. E così via, a cascata. Il risultato finale? Un’area praticamente ingovernabile, in cui si è infiltrata scaltramente la longa manus di al Qaida, che ha prima prodotto e poi diffuso, con un processo di metastasi lento ma inarrestabile, schegge impazzite verso i quattro punti cardinali. Primo bersaglio è stata la Russia dei Nuovi Zar, da Eltsin a Putin, fino a Medvedev. Chi è stato o ha vissuto a Mosca sa benissimo il clima creatosi dopo la guerra in Cecenia, con la preoccupazione (se non di più) stampata negli occhi dei passeggeri in metropolitana o degli spettatori nei teatri. Un colpo al cerchio e uno alla botte, il fondamentalismo islamico è passato come un bulldozer su questa area di crisi senza fare sconti a nessuno. Il conto salato del terrorismo l’hanno pagato, in primis, i cittadini russi vittime di sanguinosi attentati a ripetizione. Vladimir Vladimirovic e compagnia cantando non hanno ancora afferrato un concetto elementare: non si può attaccare quando ti gira, difenderti se il vento cambia bruscamente direzione, né fare due parti in commedia. La politica estera di Mosca nei confronti dell’Islam radicale è stata finora, per usare un eufemismo, alquanto “ambigua”. Non si è compreso che utilizzando strumentalmente le difficoltà degli americani in Palestina, Golfo Persico e Asia Centrale, si è lanciato e perso di vista un boomerang. Che potrebbe tornare a schiantarsi fragorosamente sulle zucche degli ex fedeli della falce e martello, i quali, nell’ansia di guadagnare potere contrattuale (e “sghei”), non si curano a sufficienza dei loro bubboni. Niente paura, verrebbe voglia di dire. A ricordarglielo ci sono ceceni, daghestani e il resto della galassia islamica caucasica, dove al posto delle candele, a cena, prima accendono candelotti di tritolo e poi si fanno le fotografie, manco fossero alla festa di addio al celibato. Se non si tiene conto dell’assoluta specificità della situazione in questa tormentata regione dell’ex Urss, allora non si può comprendere, con lucidità, quali siano i rischi che si corrono, al Cremlino e ne resto del pianeta (Boston docet). Quando i ceceni (e gli altri loro riottosi e belluini compagni di merende) partono in quarta per segnalare ai russi che la politica di “occupazione” costa un occhio della testa, allora non c’è servizio segreto che tenga. Il nuovo FSB, nato dalle ceneri del mitico KGB, è solo lontano parente dell’agenzia che prese per il naso (si fa per dire) gli Stati Uniti durante tutta la Guerra fredda, arrivando a installare ai vertici della CIA spioni che facevano il doppio gioco e che trasmettevano precise informazioni anche sulla diuresi dei presidenti americani. E infatti le bombe, al tempo che fu, glie le hanno messe quasi alla Lubianka, il tetro palazzone dove al tempo dei comunisti “duri e puri” i prigionieri politici cantavano come uccellini, prima di essere liquidati con un “p r oletario” colpo di Nagant o di Makarov alla nuca. Mettere, allora, il tritolo praticamente sotto il sedere di Putin, è stato un messaggio preciso: attenzione, riusciremo a colpirvi anche nel bagno di casa. Quindi, occhio a quello che fate. Non solo in Caucaso, ma, con tutta probabilità, anche sul fronte della lotta “i n t e r n a z i onale” all’Islam. Intendiamoci, gli attentati in Russia, non hanno (ancora) niente a che spartire con quello che è capitato in America. In passato, si sono visti interi condomini abbattuti come birilli a Mosca, sanguinose operazioni d’a s s a lto alle scuole (come a Beslan) e stragi (al teatro Dubrovka). La firma caucasica è stata chiara. Eppure i pupari, quelli veri, potrebbero trovarsi da tutte le parti. Per rinfrescare la memoria a chi soffre di amnesie, basta ricordare che spesso si è parlato di collegamenti tra i ceceni e al Qaida (tirando in ballo anche l’Afghanistan) e dei finanziamenti in arrivo da gruppi sauditi e giordani legati a Ibn al Khatab. Così come s’intrecciano da lunga pezza i “si dice” su un “gentlemen’s agreement” tra Cremlino e ayatollah, riguardante il Caucaso: tu non pesti i piedi a me e io non pesto i calli a te. Più facile comunque, che dietro tutto quello che di “e s p l o s i v amente” fondamentalista si muove in Caucaso, ci sia, come già detto, soprattutto la manina di al Qaida, sempre interessata ad aprire nuove succursali di terrorismo in “franchising”, dalla Mauritania fino alle Filippine. Doku Umarov, il capo ceceno che ha rivendicato l’ideazione del colpo alla Lubianka, e che prese il posto di Shamil Basayev, il leader separatista morto “m i s t e r i o s a m e nte” nel 2006, anni fa ha lanciato un messaggio inquietante, che deve aver fatto venire i sudori freddi sia a Putin che a Medvedev. «Voi russi conoscete la guerra solo attraverso la radio e i telegiornali – ha detto il mangiafuoco del Caucaso. Bene, dovete essere meglio informati. Per cui prometto di portarvi la guerra a casa, nelle vostre strade e sulla vostra pelle. Così la vedrete in diretta». A stretto giro di posta arrivò la risposta di Vladimir Vladimirovic. «I russi sono pronti a scovare e punire i responsabili del massacro nelle fogne da cui sono arrivati». Che tradotto dal “putinese” vuol dire Cecenia e Daghestan, dove i pronipoti di Stalin, nel recente passato, hanno avuto la mano pesante. La situazione nella regione è stata messa nel freezer dopo la crisi con la Georgia nell’Ossezia (del sud), seguita alla comparsata di Bush nei Balcani e al successivo pronunciamento dell’Europa sul contenzioso kosovaro, quando, demolire la Serbia aveva significato pagarla su altri scacchieri, a cominciare dal Caucaso. Lo sapevano anche i gatti che i russi avrebbero messo prima o dopo la Georgia a ferro e fuoco in Ossezia del Sud e che miravano a estendere il loro “patronage” anche all’Abkhazia. Un discorso valido, a maggior ragione, per Cecenia, Inguscezia e Daghestan, che fanno formalmente ancora parte dei gioielli della corona di Zar Putin. Proprietà che nessuna rivoluzione d’ottobre, anche a colpi di tritolo, riuscirà mai a rimettere in discussione.
Caucaso, i “Balcani”
della Russia di Putin
di Piero Orteca
Caricamento commenti
Commenta la notizia