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I due fratelli
ceceni erano spie
degli americani?


di Piero Orteca

Ci risiamo: le agenzie incaricate della sicurezza Usa, prima fra tutte l’FBI, hanno preso un’altra scoppola. Dietro l’attentato alla Maratona di Boston non c’è tanto il destino cinico e baro, quanto piuttosto la solita miscela di supponenza, mancata condivisione di comunicazioni (“information sharing” la chiamano gli specialisti), difetto di coordinamento tra poteri dello Stato e sottovalutazione delle potenziali minacce. Insomma, se il “poliziotto del mondo” se la passa così male, non c’è proprio da stare allegri. Il terrorismo internazionale, specie quello “jihadista”, ha subito delle radicali trasformazioni, che lo hanno fatto diventare una minaccia meno organizzata ma anche molto più diffusa, spalmata nella società civile occidentale. Le grandi democrazie, e non potrebbe essere altrimenti, fanno delle politiche di accoglienza e di inclusione uno dei loro fiori all’occhiello. Il risvolto della medaglia è che non sai proprio chi ti metti in casa. E, quando lo sai, tendi a “burocratizzare” i controlli, nel senso che più passa il tempo e più si allentano le maglie, fino a quando l’immigrato della porta accanto non ti fa la sorpresona. In pratica, è quello che è successo in America, con l’aggravante che, “rumors” provenienti da fonti autorevoli, parlano di un vero e proprio pastrocchio. Di quelli, per capirci, che dovrebbero far venire la voglia, a Barack Obama, di distribuire pedatone nel sedere al vippaio di collaboratori che si occupano di “security”. E veniamo agli “spifferi” (provenienti, manco a parlarne, da Israele) che rischiano di diventare come i venti ciclonici scappati dal Vaso di Pandora. Dunque, i “servizi” di Tel Aviv avrebbero fatto trapelare la “madre” di tutte le soffiate: i due fratelli bombaroli daghestano- ceceni sarebbero stati nientemeno che spie al soldo degli americani. Sì, avete capito bene. Barbefinte arruolate, tanto al chilo, da Fbi e Cia, che hanno fatto fessi gli 007 a stelle e strisce, diventando campioni del doppio gioco e andando a distribuire ai quattro cantoni pignatte piene di esplosivo. Secondo gli autorevolissimi esperti israeliani, che mangiano pane e terrorismo tutti i santi giorni, Tamerlan e Dzhokhar Tsarnaev “lavoravano” per i servizi segreti Usa, grazie ai buoni uffici del governo saudita. I due avevano l’incarico di “infiltrare” l’ala jihadista-wahabita, finanziata da non meglio precisate “istituzioni della Penisola arabica”, nel Caucaso. Questo spiega un’altra notizia che gira sottotraccia da diversi giorni, e cioè che gli uomini di Putin avessero già messo in guardia gli Stati Uniti alcuni mesi fa. In effetti, i russi guardano di sguincio da molto tempo le mosse, non proprio cristalline, dei sauditi nel Caucaso. Sono convinti che ci sia il loro zampino in diversi “incidenti” che hanno insanguinato regioni come la Cecenia e lo stesso Daghestan, per non parlare dell’Ossezia, dell’Inguscezia, della Kabardino-Balkaria e della Karachyevo-Cherkesiya. Tutti posti che suonano come una specie di scioglilingua, ma dove il fondamentalismo islamico guadagna discepoli e crea rogne grosse come montagne al Cremlino. Nemmeno a Washington, al di là dei sorrisi di facciata, si fidano granché dei sauditi. Tanto è vero che il primo sospettato, bloccato a Boston, è stato proprio un cittadino di Riad. Cosa che (lo hanno scoperto gli israeliani) ha spinto gli sceicchi a volare subito da Obama (lo ha fatto, zitto zitto, il ministro degli Esteri al Faisal) per mettere le mani avanti e chiarire come giravano i bussolotti. Il colloquio, svoltosi alla presenza di Tom Donilon (National security adviser), a essere sinceri, è sembrato più una “excusatio non petita”. Nei college e nelle università americane studiano 30 mila sauditi e a Riad non vogliono apparire come i sostenitori occulti del terrorismo. La stampa della Penisola araba, in questi giorni, proprio in ossequio a questa linea “soft”, si affanna a sottolineare che il vero fedele dell’Islam non può scegliere la strada del terrorismo. Comunque sia, a Gerusalemme sono convinti che il triangolo Usa-Arabia-Caucaso è quello giusto e mettono sul tavolo altre prove. In primis la “strana” ammissione da parte di un college del Massachusetts del fratello più giovane di Tamerlan. Con tanto di borsa di studio. Secondo: quando i russi si sono rivolti all’FBI segnalando il “curriculum” dei due caucasici, gli agenti americani hanno frettolosamente chiuso la pratica. Evidentemente volevano trattare l’affaire a modo loro. Nessuno si è preoccupato dei viaggi di Tamerlan in Russia e nemmeno delle sue pubbliche (e radicali) prediche a favore dell’Islam. Terzo: quando sono stati diffusi gli identikit dei sospettati (i due fratelli) all’FBI baravano. Sapevano benissimo di chi si trattava, perché erano nei loro libri-paga. Insomma, la storia puzza di bruciato a chilometri di distanza, per usare un eufemismo. Non è la prima volta che gli americani si fanno turlupinare da spie “di seconda mano”, ingaggiate come si faceva una volta a Cinecittà, con quattro lire, il biglietto del tram e un paio di panini con la mortadella. Roba da pazzi! Gli israeliani sono scandalizzati e ricordano le altre “perle” del passato. Quella più clamorosa riguarda l’assunzione di Ali Abdoul Saoud Mohamed, interprete di Ayman al-Zawahiri, allora numero due di al Qaida. Naturalmente, tanto per dare l’idea dei criteri di reclutamento di Fbi e Cia, Abdoul Saoud cominciò cinguettando come un uccellino con i “servizi” di Washington e finì mettendo bombe all’ingrosso, nelle ambasciate Usa di Nairobi e Dar es-Salaam. E che dire del “capolavoro” realizzato in Afghanistan, quando venne arruolato un medico giordano (Human Khalil al-Balawi) ritenuto capace di infiltrarsi nei vertici talebani. Detto fatto. La “spia delle meraviglie” si fece saltare in aria, uccidendo i quattro “top officials” della Cia in Asia Centrale. Basta? Non ancora. In un’altra operazione di “doppio gioco” fatta con i francesi (te li raccomando…) venne ingaggiato un islamista (Mohamed Merah) che un giorno collaborava e il giorno dopo faceva attentati a ogni angolo di strada. Un altro elemento che fa seriamente pensare a uno scenario molto più complesso e alla volontà di fare scomparire frettolosamente la polvere sotto i tappeti è legato alle modalità dell’interrogatorio del giovane terrorista superstite. Intendiamoci, non è che tutte queste magagne le vedano solo i servizi segreti stranieri. Il Senate Intelligence Committee ha già cominciato a mettere sulla graticola le alte sfere dell’Fbi e il Dipartimento per la Sicurezza Interna. Sotto accusa l’apparente incomunicabilità tra le varie agenzie che i senatori, specie quelli repubblicani, cominciano a sottolineare con un certo stupore. Nell’attesa che pure loro si leggano i “report” di fonte israeliana. Allora sì che salteranno tutti dalle sedie. Anzi, dai seggi

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