La Siria è ormai diventata la bomba a orologeria di tutto il Medio Oriente. E non solo perché, da un punto di vista geostrategico, è il crocevia delle tensioni che si sommano nell’intera regione, ma anche e soprattutto per la formidabile confusione diplomatica che le Cancellerie internazionali hanno, fino a ora, contribuito a creare. Ieri, per non andare lontano, un attentato terroristico ha fatto 40 morti nella vicina Turchia. Messe sotto salamoia le aspettative di “esportare la democrazia” grazie alle varie “Primavere arabe”, alla Casa Bianca è tempo di riflessioni. Anzi, per dirla tutta, di pentimenti. Chi aveva il dito sul grilletto, quindi, farà bene a toglierlo. Russi e americani, infatti, hanno preso un brodino, stabilendo che discutere è meglio che sparare. Insomma, si cerca di mettere la crisi a bagnomaria, evitando, visto come girano i bussolotti, che possa degenerare. Il Segretario di Stato Kerry e il presidente russo Putin hanno raggiunto uno straccio di accordo (al ribasso), per mettersi comodi attorno a un tavolo. A Ginevra. Soddisfatti i tedeschi (lo ha detto il ministro degli Esteri Westerwelle), che già la vedevano messa male. Addirittura entusiasti gli iraniani, a cui già fischiavano le orecchie. Il vicepresidente Mohammedizadeh, ha espresso tutta la sua contentezza, prenotando un posto alla conferenza (a proposito, “Squalo” Rafsanjani si è persino candidato alle prossime presidenziali). Certo, gli Stati Uniti sono stati presi per la collottola, visti gli ultimi avvenimenti, e hanno fatto tesoro dei ceffoni rimediati in tutto Medio Oriente. Sanno di aver fatto, in diversi frangenti, il passo più lungo della gamba, come in Egitto, dove al Qaida prospera e, soprattutto, in Libia. Il Paese dei Faraoni è in fibrillazione, con i Fratelli mussulmani di Morsi che ondeggiano, pericolosamente, tra le suggestioni del modello politico occidentale e le sirene di un fondamentalismo islamico che riaffiora ciclicamente. Chi nasce tondo non può morire quadrato. Vedrete che, dollari o non dollari in arrivo dallo Zio d’America, prima o dopo l’Egitto diventerà una fabbrica di problemi. Quello che è già la Libia, dove non si capisce bene chi comandi nel caos tribale creatosi dopo la “liberazione” (o la nuova corsa al petrolio e all’uranio, fate voi). Tra le altre cose, bisogna ricordare che Obama ha già pagato dazio con l’agguato di Bengasi, che è costato la vita all’ambasciatore Stevenson e a tre “officers” della Cia. I repubblicani, al Congresso e sulla stampa, spargono sale grosso sulle ferite ancora aperte e continuano a chiedere conto e ragione della botta patita dall’intelligence statunitense. Stessa musica per le bombe di Boston e i “misteri” (di Pulcinella) dell’Fbi, l’agenzia che si occupa anche di controspionaggio. Messa sulla graticola dopo le rivelazioni di fonte russa e israeliana sulla gestione “allegra” delle soffiate che riguardavano la pericolosità due terroristi ceceni. Come abbiamo già scritto, addirittura, a Gerusalemme sono convinti che l’Fbi abbia barato, perché a loro i fratelli Tsarnaev risultavano essere nel libro-paga dei servizi segreti di Washington. Insomma, la confusione regna sovrana. E adesso la Siria rischia di diventare la “madre” di tutte le disgrazie diplomatiche, semplicemente perché non si distingue più tra i nemici e i presunti amici. Ricapitoliamo: Bashar el Assad, presidente- padrone dai modi spicci, governa da Damasco sostenuto solo dal 13% (alawita) della popolazione. Per la verità, gli esperti dicono che anche le altre minoranze (cristiani e curdi) sono dalla sua parte. La maggioranza sunnita (oltre l’85%), invece, lo vuole morto. E non solo per motivi “libertari”. Nell’arcipelago della rivolta siriana, infatti, esistono diverse anime, tra cui quella “nera” di al Qaida, rappresentata dalla sua filiale locale di al-Nusra. I qaidisti vogliono morti, assieme ad Assad, anche gli americani e gli israeliani. Ergo: Obama deve stare attento non solo a dove mette i piedi, ma anche a dove piazza le armi che manda ai ribelli, perché c’è il rischio che cadano nelle mani dei nipotini di bin Laden. Per farla completa, sembra che parte dei gas nervini posseduti da Damasco, sarebbero già (ma non è sicuro) nell’arsenale dei rivoltosi. Ipotesi rabbrividente, rilanciata qualche giorno fa dalla “commissaria” Onu Carla del Ponte, che ha appunto accusato proprio i sunniti anti-Assad di avere lanciato bombe piene di gas “sarin”. Scombinando i piani di chi, in Occidente, cercava l’alibi giusto per fare la festa al presidente siriano. Il quale, da parte sua, può contare sul sostegno, non solo a chiacchiere, degli ayatollah iraniani e dei loro guarda-spalle libanesi: le agguerrite milizie di Hezbollah. Che sono entrambi sciiti, tanto per chiarire i termini dell’inghippo. Teheran e i barbudos guerriglieri comandati dallo sceicco Nasrallah vogliono pure loro, sai che novità, la distruzione di Israele. In particolare, Hezbollah ha il difettuccio di operare a ridosso del Golan, a un tiro di schioppo, pardon, di “missile”, dalla Galilea. Per questo gli israeliani si sono scatenati, uscendo dal seminato, con due incursioni aeree contro i “regolari” di Damasco. Lo hanno fatto perché temono che gli uomini di Assad (o gli iraniani che combattono per lui) trasferiscano armi “pesanti”, tra cui i “nervini”, a Hezbollah, che li potrebbe sparare dal Libano facendoli piovere, in un paio di minuti, fino ad Haifa. I russi sostengono e armano i siriani, usano il porto di Tartus, brigano con gli ayatollah e alzano il prezzo della loro mediazione. Tutto per mettere spalle al muro Obama e obbligarlo a cedere su altri scacchieri. Tanto per capire che vento tira, notizie in arrivo dalle segrete stanze parlano di un patto di ferro, siglato tra il Cremlino ed Hezbollah, lo scorso 27 aprile, alla presenza del viceministro degli Esteri di Mosca, Michail Bogdanov. Vista la mala parata, il partito delle ”colombe”vicino a Obama lo ha convinto a spedire il Segretario di Stato, John Kerry, da Putin, per cercare di uscire dall’ennesimo ginepraio in cui si è cacciata la diplomazia americana. Il Cremlino, come abbiamo visto, gli ha solo concesso, con molto sussiego, la possibilità di riparlarne. E ha proposto di mettere in piedi la bella conferenza- baraccone di cui sopra. A complicare le cose, si moltiplicano, poi, i ”rumors” di spaccature dentro la stessa Amministrazione americana. Molti “adviser”, parafrasando Danzica, non sono disposti “a morire per Damasco”, anche perché temono il “dopo”. Finora Assad ha tenuto a cuccia i qaidisti, ma se dovessero vincere i sunniti le cose potrebbero prendere una brutta piega. Viste tutte queste piroette, se ancora non vi gira la testa, dovete sapere che dietro il macello di questi giorni c’è una “santa” (e strana) alleanza tra il governo di Gerusalemme e i sauditi, col Qatar in veste di finanziatore- ombra. Insomma, un inedito fronte ebraico-sunnita coalizzatosi per arginare le paturnie nucleari dell’Iran sciita. Adesso si può anche capire perché, finora, Barack Obama non abbia mosso nemmeno un mignolo. Con questi chiari di luna, “esportare” la democrazia in Siria potrebbe significare “importare” solo vagonate di rogne in America.
Siria, una conferenza
per “congelare” la crisi
di Piero Orteca
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