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Se non sogniamo ora, quando?
Aristofane fra noi

di Anna Mallamo


Un Paese allo stremo, annichilito da decenni di malgoverno, demagogia e corruzione. Un Paese piegato dalla crisi, con una difficile posizione internazionale. Un Paese che, pure, ha la costituzione più bella del mondo, che la rende una cosa preziosa: una democrazia-modello.

Ma anche le democrazie modello piangono, e a volte il rimedio ai mali passa per le più incredibili soluzioni. Addirittura inimmaginabili, fino al giorno prima.

No, non si tratta dell'Italia di oggi, ma dell'Atene del quinto secolo avanti Cristo.
E non parliamo di Napolitano, Letta & compagni. Stiamo parlando di Aristofane, la cui commedia “Le donne al Parlamento” è andata in scena al Teatro greco di Siracusa – nell'ambito del 49. ciclo di rappresentazioni classiche del benemerito Istituto nazionale del dramma antico – con la regia del siciliano Vincenzo Pirrotta (e nella bella traduzione di Andrea Capra: più ancora che per le tragedie, una traduzione a orologeria è necessaria, per la commedia, se si vuole salvaguardarne il potenziale politico, etico e persino comico).

Lo sappiamo, Aristofane – che gli dei lo abbiano in gloria – era un vero e fiero reazionario: oggi chissà per quale Giornale scriverebbe (e lo farebbe comunque molto bene). La sua polis ideale è continuamente vagheggiata e continuamente misconosciuta nelle sembianze della polis descritta e derisa nelle sue commedie, col suo corredo di intrallazzatori e sicofanti, di narcisi e mazzettari, di evasori e corruttori di minorenni (a volte nella stessa persona, pensate un po'). “Le donne al Parlamento” non fa eccezione, anzi. In qualche modo è il canto del cigno della polis, alla fine della sua scintillante parabola, stremata dalla guerra (con Sparta, la storica nemica) e divorata dai demagoghi. L'idea comica di fondo è, allora, la soluzione più assurda e strampalata. Quella che non verrebbe in mente a nessuno, se non per celia. No, non è mettersi d'accordo con gli Spartani e governare assieme (nemmeno Aristofane poteva immaginare un effetto tragicomico come le larghe intese), ma qualcosa di parimenti incredibile: il potere alle donne.

Le donne che, persino nella civilissima Atene, sono ben chiuse in casa, lontane dalla ricca vita politica e condivisa della città-stato dove la democrazia è diretta, direttissima, e uno vale uno (Grillo arriva con qualche millennio di ritardo, in effetti), purché sia rigorosamente maschio.

Ed ecco l'idea geniale dell'eroina Prassagora (una travolgente Anna Bonaiuto): travestirsi, con un folto gruppo di altre donne, da uomo e far passare in Parlamento un'audace riforma costituzionale (diremmo ora), per consegnare il potere alle uniche cittadine della polis con la testa sulle spalle, appunto le donne.

E la scena iniziale, in cui le donne “provano” i discorsi da tenere in Parlamento è davvero esilarante, e mette in luce l'abilità con cui la commedia (merito doppio della traduzione e della regia, che si sostengono a vicenda ammirevolmente) cita l'attualità dei nostri giorni.

Non sono solo i “nomi parlanti” (Microscopide, Piluniuru...) o i “komodoumenoi” (i “commedizzati”; i personaggi del tempo, i vip della politica menzionati ad un pubblico che li conosceva benissimo ed era lì proprio per sentirli nominare) di cui è costellato il testo, abilmente attualizzati (riconosciamo, con diletto, “Burkezio” e “Alfànide”, “Maronide” e “Berlùschide”), ma è la ripresa, parodica, di tutto un linguaggio della politica, dei suoi tic linguistici e dei suoi tormentoni mediatici.

Atene è il paese che amo” dichiara Prassagora aprendo il suo discorso alle “parlamentarie”, e due mondi lontanissimi, il nostro e quello degli ateniesi di duemilacinquecento anni fa, si saldano nel meccanismo magnifico della commedia.

Che poi “Le donne al Parlamento” non rinuncia proprio a nulla, della commedia, nei suoi aspetti più volutamente crassi, scurrili e financo scatologici (c'è il più lungo brano scatologico della letteratura greca antica, avverte il traduttore): la scena iniziale di Blepiro, marito di Prassagora (interpretato con la consueta, coinvolgente fisicità dallo stesso regista), ne è un bell'esempio, così come la scena in cui, in pieno regime di comunismo sessuale instaurato dalle donne, tre laidissime vecchie si contendono le prestazioni d'un malcapitato giovinotto (il messinese Antonio Alveario in veste, assolutamente filologica, di falloforo).

Ma i registri, nella lingua raffinata e nella drammaturgia stessa di Aristofane, sono molti e diversi, così come i palati che vuole accontentare la commedia (ieri e oggi), e tutti vengono ripresi e sostanziati dalla regia di Pirrotta, il quale accanto alle scene più comicamente sfrenate costruisce un'altra verità, un momento – a contrasto – altissimo ed etico. Che parte proprio da quell' “assurda” rivoluzione delle donne.

Pirrotta – che è drammaturgo ancor prima che regista – ha scritto di suo pugno la parabasi che vediamo in scena: nel teatro antico quella era la parte più politica della commedia, la sua sostanza politica ed etica. Il coro (o un personaggio) s'avvicinava (parabaino) al pubblico deponendo la maschera, annullando la distanza della “fiction”, diventando voce reale della polis.

Dalla corifea e dal coro delle donne (tutte molto brave, particolarmente nelle coreografie realizzate da Alessandra Fazzino – le musiche, calibratissime, sono di Luca Mauceri – dove cogliamo echi di pizzica e tarantella, di balli popolari e condivisi, d'archetipi etnici della danza) sentiamo raccontare la storia delle donne, dalle origini all'ultimo femminicidio, cronaca di oggi, di poco fa. In scena, nelle parole del coro (“Noi cambieremo il mondo, e se non ora, quando?”) il corpo unico e collettivo, il corpo simbolico e reale, ferito e ricucito, infinitamente composto e dignitoso, il corpo indistruttibile, il corpo caro e coraggioso delle donne.

I costumi (di particolare bellezza, opera di Giuseppina Maurizi: veri attrezzi scenici, pregnantemente simbolici) sottolineano il corpo collettivo delle donne, che marciano assieme, sventolano drappi rossi (evocando la Rivoluzione francese e il Quarto Stato, i moti risorgimentali e le marce degli anni Settanta), fanno volare mantelli colorati e poi li trasformano in severi burqa, che tornano a imprigionarle – come dappertutto nel mondo – per la parabasi estrema, finale, impietosa, a cui non possiamo sottrarci.

Vi abbiamo raccontato un sogno” ci dicono infine. Un sogno politico ed etico: il potere dal volto umano, la riscossa delle donne. E se non sogniamo ora, quando?

Il teatro ci serve, da migliaia di anni, a sognare, a progettare, a immaginare il migliore dei mondi possibili.

La commedia andrà in scena ogni lunedì fino al 17 giugno.

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