Nemmeno un Nostradamus in grande spolvero avrebbe potuto prevedere, solo qualche mese fa, il brutto quarto d’ora che sta passando, in questo primo scorcio del 2013, Barack Obama. Sulla capa del super-presidente Usa si vanno addensando nuvoloni neri come la pece. Una sorta di “tempesta perfetta” degli scandali, che rischia di scatenare un diluvio universale dalle conseguenze difficilmente prevedibili e, transitivamente, quasi impossibili da governare. Qualche avvisaglia, per la verità, si era avuta in campagna elettorale, ma l’armata brancaleone repubblicana non ne aveva saputo approfittare. Superbarack poteva restarci secco, politicamente parlando. Colpa della crisi e del deficit, certo, spettri che agitavano le notti dei contribuenti e facevano intravedere all’orizzonte scenari da incubo, con il governo federale pronto a tassare pure il gatto. Nell’occasione Mitt Romney, lo sfidante, si era scelto come vice Paul Ryan anche per questo. I due, però, hanno mostrato l’appeal di due pezzi di baccalà appena scongelati. In quanto a soldi, bilanci e magagne contabili assortite sono stati dei veri fenomeni, ma per vincere bisogna anche saper parlare al cuore della gente. E Obama, in questo, è imbattibile. In uno dei dibattiti televisivi, comunque, era venuto a galla il pastrocchio di Bengasi, con l’uccisione dell’ambasciatore americano Chris Stevens e di tre “officers” della Cia. Il presidente aveva vacillato, di fronte all’accusa di avere sottovalutato gli avvertimenti, sbolognando tutto il fardello delle colpe sul Dipartimento di Stato (leggasi Hillary Clinton). Ma poi i repubblicani si sono incartati e non hanno saputo sostenere l’attacco contro l’inquilino della Casa Bianca. Ora tornano alla carica, aggiungendo al dossier Libia altri due faldoni: le intercettazioni (illegali) sulle utenze dei giornalisti dell’Associated Press e, ultima grana in ordine di tempo, l’aver passato al setaccio, con immotivata ostinazione, la situazione fiscale dei componenti del “Tea Party”, gli avversari “duri e puri” del Partito Repubblicano. Alla Casa Bianca però, fiutato il clima da accerchiamento, studiano come rompere l’assedio. Denis McDonough, capo dello staff presidenziale, ha tenuto “consiglio di guerra” con tutti gli “strategist” di Obama. Le direttive sono di “non perdere tempo nel rispondere alle critiche” e di concentrarsi, invece, sulle cose da fare, propagandandole adeguatamente: leggi meno restrittive sull’immigrazione, soluzioni tempestive per i problemi di bilancio federale, provvedimenti necessari per una corretta applicazione della riforma sanitaria e disciplina a sostegno degli studenti meno abbienti. Lo stesso presidente, da parte sua, parlando a Baltimora, è apparso molto combattivo e comunicativo. Intendiamoci, relativamente alle violazioni delle agenzie governative, non ci sono assolutamente evidenze su un ipotetico ruolo di “mandante” che i suoi nemici vorrebbero accollare a Obama. Restano, però, molte perplessità. Chris Cillizza, sul Wahington Post, definisce lapidariamente, quella appena trascorsa, come “la settimana disastrosa del presidente”, incalzato dalla marea montante degli scandali, tra i quali diventa difficile scegliere il più insidioso. Steve Miller, il commissario ad acta dell’IRS, Internal Revenue Service (in pratica, l’Agenzia delle Entrate), è stato già (prudentemente) silurato per la sua foia anti-repubblicana. Intanto, si indaga sulle intercettazioni a carico dei giornalisti AP che, segretamente, il Dipartimento della Giustizia avrebbe ottenuto, mettendosi la legge sotto i piedi. E poi, last but not least, il papocchio libico, che Obama non maledirà mai abbastanza. Morale della favola: il treno della Casa Bianca rischia letteralmente di deragliare (“derail” scrive il prestigioso quotidiano Usa) dal percorso faticosamente abbozzato per i primi 18 mesi del secondo mandato. Per il sito web di “Politico”, almeno un terzo di tutte le Commissioni del Congresso sta passando al setaccio la correttezza del comportamento tenuto dall’Amministrazione democratica. Non è una buona notizia per il presidente, anche per il fatto che la Camera è controllata dai repubblicani. A passare ai raggi X, poi, i tre “affairs”, lo scenario peggiora. Prendiamo lo scandalo IRS. Obama sapeva? Allora siamo quasi a un altro Watergate, l’imbroglio che affondò Nixon. Non sapeva? E che razza di presidente è, dicono i suoi detrattori, se non riesce manco a controllare gli abusi del sistema fiscale (che in America è il “sancta sanctorum” dei diritti individuali)? Ovviamente, sono già cominciati i bombardamenti a tappeto. I governatori Bobby Jindal (Louisiana) e Scott Walker (Wisconsin) hanno scritto a Obama per dirgli che il suo governo sembra quello del Grande Fratello (testuale: “Big Brother”), che sta facendo carne di porco dei diritti garantiti dal Primo Emendamento della Costituzione. Mark Mardell (BBC North America Editor) rincara la dose. Per lui il presidente Usa è letteralmente “in un mare di guai” e cerca di uscirne senza affogare. Le sue reazioni, è vero, sono formalmente ineccepibili. Si è dichiarato “offeso” da fatti, che non possono “avere scuse o giustificazioni”. Eppure qualcosa non quadra. Il suo ministro del Tesoro, Jack Lew, ha gettato di gran corsa ai pescecani il direttore dell’IRS. Ma è sicuro che quest’ultimo abbia fatto tutto da solo? E mentre crescono i dubbi, cominciano anche a circolare parole come “impeachment”, cioè la procedura costituzionale per defenestrare i presidenti americani che si siano macchiati di gravi colpe. Il repubblicano Jason Chaffetz (Utah) non lo esclude, in relazione all’attentato di Bengasi. Nel corso di un’intervista alla CNN, il congressista ha detto di non essere personalmente interessato a far scattare la procedura, ma che, a suo giudizio, in ogni caso ci sarebbero tutti gli elementi per mettere Obama sotto accusa. La stessa cosa Chaffetz ha dichiarato alla Salt Lake Tribune, ingenerando in alcuni commentatori il fondato sospetto che, sottotraccia, molti repubblicani mirino al bersaglio grosso. Il deputato ha aggiunto che, nel dossier libico, ci sono vistose lacune. Componente dell’Oversight Committee, Chaffetz ha anche espresso tutte le sue perplessità dopo le testimonianze offerte da tre esponenti del Dipartimento di Stato sull’omicidio dell’ambasciatore Stevens in Libia. I funzionari, giudicati “ricchi di esperienza” e con uno stato di servizio impeccabile, avrebbero sostenuto che quanto successo sul terreno è molto distante da quello che va raccontando la Casa Bianca. La quale, dal canto suo e per parare il colpo, ha deciso di declassificare una montagna di e-mail scambiate tra la Cia e il Dipartimento di Stato. Documenti che, per la verità, dimostrano di essere una pezza peggiore del buco che si vorrebbe tappare. A leggere i messaggi, infatti, l’impressione è quella di una grande confusione. Un’incertezza in cui ognuno svicola sulle proprie responsabilità e la stessa Casa Bianca brilla per la sua colpevole assenza. Insomma, l’avrete capito tutti, la tensione, nello Studio Ovale, per ora, si taglia a fette, mentre la Primavera araba assomiglia, sempre di più, a una primavera di passione per il povero Obama.
Obama e la
“tempesta perfetta”
degli scandali
di Piero Orteca
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