Cose turche. Sintesi letterale, sostanziale e metaforica, di quello che va succedendo a Istanbul e dintorni da più di una settimana e che comincia (meglio tardi che mai) ad accendere tutte le spie rosse della diplomazia. Le stanze delle unità di crisi dei diversi ministeri degli Esteri, da Mosca a Washington, sono ormai illuminate come a Natale, notte e giorno. La Turchia, 75 milioni di abitanti e una posizione che più strategica non si può, è in preda all’agitazione. Non siamo ancora alle convulsioni, ma poco ci manca. Le manifestazioni di piazza, partite da Istanbul, si stanno estendendo a macchia d’olio al resto del Paese, fino alla capitale Ankara. Ad Adana anche ieri ci sono stati nuovi arresti. Tutto è cominciato dalla programmata distruzione del Parco Gezi, proprio al centro della vecchia Costantinopoli, per far posto a delle “facilities” (caserme, musei, centri commerciali o moschee?). La verità è che il governo di Tayyip Erdogan, negli ultimi tempi, si è fatto sempre più ruvido, e i segnali di una progressiva “islamizzazione”, prima striscianti, ora sono sfacciatamente conclamati. Apriti cielo! Non è, chiaramente, solo un “affaire” che possa interessare gli ambientalisti quello di Gezi. Diciamo che ha tutta l’aria della goccia che ha fatto traboccare il vaso, che si andava riempiendo da mesi. Erdogan ha sterzato da lunga pezza verso sentieri che lo portano in rotta di collisione con l’Europa (un po’ meno con gli Usa, perché gli americani, quando c’è in ballo la coperta degli interessi nazionali, chiudono gli occhi e tirano dritto). Gli analisti dicono che la leadership di “Giusti - zia e Sviluppo”, il partito islamico al potere, infoiata dai miraggi della passata grandezza ottomana, si sia convinta che la Turchia possa ridiventare una grande potenza regionale. Anzi, una grande potenza “tout court”.
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