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Iran, la vera
rivoluzione è quella
degli elettori


di Piero Orteca

L’Iran che non ti aspetti. Questa volta pare proprio che la guerra dei turbanti abbia prodotto la sorpresona: dopo lo scrutinio dei voti per le presidenziali, il ministero degli Interni ha annunciato che più della metà, circa il 50,68%, (oltre 18 milioni di preferenze) sono andati al candidato “riformista” Hassan Rohani, che così diventa presidente al primo turno. La cautela è d’obbligo, visto tutto quello che è capitato nel 2009. Rohani ha il pregio di avere presentato un programma che prevede aperture nei confronti dell’Occidente e la liberazione “di massa” dei prigionieri politici. Non è poco con i chiari di luna a cui ci aveva finora abituati la Guida Suprema, il “duro e puro” Alì Khamenei, che ha dovuto constatare il flop del suo alfiere, Saeed Jalili, fermo al terzo posto. Certo, è ancora troppo presto per cantare definitivamente vittoria, perché bisognerà aspettare se ci saranno eventuali contestazioni. Rohani ha alle spalle due formidabili e tignosi personaggi dell’establishment persiano: Akbar Hashemi “Squalo” Rafsanjani e Mohammad Khatami, tutti e due ex presidenti e nemici giurati della “Guida Suprema” che, secondo loro, con la sua strategia del muro contro muro, pagata a caro prezzo con le sanzioni economiche, sta portando il Paese dritto filato verso il precipizio. Ecco scoperto l’arcano, dunque. La gente è stanca di politiche- boomerang, che sono state capaci solo di danneggiare irrimediabilmente il mercato iraniano. Rafsanjani e Khatami, in un certo senso, rappresentano il “Partito del Bazar”, come viene definito quel vasto arcipelago di idee e movimenti che mette al primo posto la qualità della vita e, per la proprietà transitiva, la circolazione della ricchezza. La religione è importante, insomma, ma la pancia piena viene messa al suo stesso livello. Fare la fame per inseguire paturnie e folli programmi nazionalistici non è proprio quello di cui hanno bisogno 77 milioni di iraniani. E le elezioni lo stanno dimostrando, a cominciare dalla larga partecipazione popolare, calcolata intorno al 72% degli aventi diritto. Al secondo posto viene piazzato il sindaco di Teheran, Qalibaf (un altro “duro”). Quarto sarebbe Mohasen Rezai, ex capo delle Guardie Rivoluzionarie (e abbiamo detto tutto). La figura di Rohani è annoverata, forse, un po’ forzatamente tra i riformisti. In effetti, ha scalato molte posizioni su questo versante dopo che dalla competizione si è ritirato (su consiglio di Khatami) l’unico vero moderato della compagnia, Mohammad Reza Aref. Gli altri due candidati sono l’ex ministro degli Esteri Velayati e l’ex responsabile del dicastero delle Telecomunicazioni, Mohammad Gharazi, entrambi, più o meno, ritenuti non troppo distanti da Khamenei. Il quale potrebbe continuare a “influenzare”, per usare un eufemismo, i risultati elettorali. Come ha già fatto nel 2009, mettendo a tacere i candidati sconfitti da Ahmadine jad, che lo accusavano di brogli pacchiani. Due di loro, Mir Hussein Mousavi e l’ayatollah Mehdi Karroubi, evidentemente insoddisfatti dalla piega presa dagli avvenimenti, promossero il “Movimento Verde” di opposizione. Risultato, tanto per capire come vanno le cose sotto il cielo persiano: arresti domiciliari per entrambi e congelamento del loro ruolo politico. Non è un caso se anche per le elezioni di quest’anno l’aria che si respira si è fatta pesante. Alcuni quotidiani riformisti sono stati chiusi, l’accesso a internet attentamente monitorato e diversi giornalisti hanno finito per soggiornare nelle patrie galere. La stessa Bbc ha accusato le autorità iraniane di avere usato la mano pesante persino con le famiglie degli impiegati del network televisivo britannico. Tornando a Rouhani, definito un “clerico di strada” per la sua modestia e l’abitudine di stare in mezzo alla gente, bisognerà vedere se poi, in caso di vittoria confermata, riuscirà a mantenere le mille promesse fatte. Sulle sue spalle si stanno caricando le speranze di tutti i moderati iraniani, cioè di coloro, e sono la maggioranza, che si sono stufati di essere comandati a bacchetta da un regime incapace di garantire un minimo di prosperità a una nazione potenzialmente ricchissima. Il “Green Movement” ha lungamente dibattuto sull’opzione di disertare le urne. Ora, evidentemente, ha ripiegato sul piano di riserva: sostenere a spada tratta Rohani e vedere come andrà a finire. In molti sono rimasti scottati dalla violenza della teocrazia al potere, accusata di avere imbrogliato le carte, imponendo Ahmadinejad e successivamente vendicandosi degli oppositori, incarcerati senza pietà dopo essere stati sottoposti a processi-farsa, licenziati a migliaia o, più semplicemente, intimiditi giorno per giorno. Ma oltre a una fiera opposizione “conclamata” c’è anche una larga “maggioranza silenziosa”, che finora non si è apertamente schierata contro il regime per paura, ma che, nel segreto dell’urna (si spera), sta finendo per esprimere tutta la sua rabbia. Basterà? Calma e gesso. Molti analisti sono convinti che il ribaltone possa sempre essere dietro l’angolo. In particolare, occhio alle parole pronunciate quasi a caso dal ministro degli Interni, Mostafa Mohammad Najar, che alla tv di Stato ha ricordato come «i candidati che si ritengano danneggiati » abbiano tre giorni di tempo per rivolgersi al Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione. Insomma, all’ombra dei cento minareti ormai divenuti come il castello di Macbeth, la Guida Suprema potrebbe rivoltare la frittata. In questo caso, la prima a essere danneggiata sarebbe la democrazia (di cartone) degli ayatollah e, in secondo luogo, l’economia, ormai in fase preagonica. L’Iran è in piena “stagflazione”, come chiamano gli specialisti la sommatoria di stagnazione (nel 2013 il Pil potrebbe calare di un 1,5%) e inflazione, che si avvia al + 30% su base annua. Ovviamente, l’occupazione sbanda. Le statistiche parlano di un 14% che, detto fra noi, sembra abbondantemente taroccato. Le importazioni calano (per colpa delle sanzioni) e si tengono a braccetto col crollo delle esportazioni. Entrambi gli indicatori segnano un -4,5%. Né i 52 miliardi di dollari che arrivano dalla vendita di greggio (l’Iran possiede il 9% di tutte le riserve mondiali) sembrano sufficienti a riequilibrare i conti. Anzi. I dati ufficiali del deficit pubblico, poi, non sembrano tragici (-3,5% su Pil) e nemmeno quelli sul debito lordo statale (11% del Pil). Ma anche qui sorgono forti dubbi sulla loro attendibilità. Altri indicatori come la mortalità nel primo anno di vita (42 su mille), la spesa per scuola e ricerca (4,7% del Pil) e quella per la Difesa (denunciato un ridicolo 2,5% del Pil, mentre si parla di valori a doppia cifra) fotografano una realtà fatta di qualche chiaro e molti scuri. Le elezioni presidenziali del 2013, dunque, non sono solo una “prova del nove” per la parvenza di democrazia finora dimostrata, ma diventano anche una sorta di referendum sulle strategie (si fa per dire) economiche di tutto il sistema- Paese. È chiaro che occorre una sterzata. Bisognerà vedere se a darla sarà un nuovo presidente come Rohani, o un teocrate col sedere di pietra come Khamenei. In quest’ultimo caso, è più che probabile che il torpedone degli ayatollah, con tutti gli incolpevoli passeggeri, sfondi il guard-rail e finisca in una scarpata.

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