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Egitto, la
“Primavera araba”
va in frantumi


di Piero Orteca

Sette morti, oltre 600 feriti e 22 milioni di firme per togliersi dai piedi il presidente Morsi. Come vi sembra (per ora) il bilancio complessivo della “Primavera egiziana”? Certo, considerando quello che ancora può capitare, ci andremmo piano con le previsioni negative. Infatti, potrebbero rivelarsi, peggio ancora, semplicemente catastrofiche. Gli scontri fra sostenitori e oppositori di Mohammed Morsi (sostenuto dall’Occidente e dagli americani in particolare) dilagano. È prevista, per oggi, una mega-manifestazione di protesta contro l’integralista in doppio petto, che i consiglieri di Obama, sciaguratamente, si sono scelti come amico dopo avere scaraventato in mare, con tutte le scarpe e con una pietra al collo, il loro ex proconsole, Hosni Mubarak. La rivolta, cominciata mercoledì scorso (ma il fuoco covava sotto la cenere da lunga pezza) ha interessato principalmente, oltre alla capitale, le aree del delta nilota, a nord del Cairo, e la grande città di Alessandria, dove ha perso la vita un giovane insegnante Usa. Niente paura, però: dopo che i buoi sono scappati dalla stalla, a Washington hanno dato l’ordine di sbarrare i cancelli. Il Dipartimento di Stato ha autorizzato lo staff non essenziale e le famiglie a lasciare il Paese e ha invitato i compatrioti americani a tenersi alla larga dall’Egitto, dove, con tutta evidenza, il piano di “esportazione della democrazia” se lo sono messo sotto i piedi. Un aereo carico degli “apostoli” della libertà a stelle e strisce è già scappato, di gran corsa, alla volta di Francoforte, mentre il resto del personale diplomatico si è barricato nell’ambasciata. Intanto, le proteste degli “anti-Morsi”proseguono in piazza Tahrir, mentre, alla moschea di Rabaa el Adaweya, si raccolgono i sostenitori dei Fratelli Musulmani. In un clima da guerra civile. Davanti al palazzo presidenziale di Ittahadeya, dove si concentreranno i sette grandi cortei organizzati dal movimento dei “Ribelli” (Tamarod), le tende affollate di contestatori si moltiplicano come i funghi. Nel macello egiziano sono incappati anche cinque volontari italiani della onlus di Genova “Music for Peace”, bloccati ad Alessandria. Erano diretti nella Striscia di Gaza, con sei container di aiuti umanitari destinati ai palestinesi. Il presidente Obama si è detto “preoccupato” per il caos creatosi in Egitto e si è rivolto al presidente Morsi e all’opposizione esortandoli a intavolare “colloqui costruttivi”. Chiacchiere. In verità, voci di corridoio (provenienti da fonti “bene informate”) lo danno sull’imbufalito spinto, per l’ennesima figuraccia fatta dai suoi “consiglieri” per il Medio Oriente. Vedrete che diversi cervelloni che lo circondano verranno spediti a gestire i carrettini di hot dog piazzati dalle parti di Pennsylvania Avenue, dove si trova la Casa Bianca. Certo, non ci voleva l’orbo per indovinare la “ventura”. Quando è cominciata la serie di sommosse che ha mandato a gambe per aria molti regimi della Mezzaluna, una re- gione che dalle coste atlantiche nordafricane arriva fino al Golfo Persico, diversi analisti hanno subito cercato di invitare le Cancellerie a “frenare”, per non gettare dalla finestra il bambino con tutta l’acqua sporca. Tempo perso. Sotto la spinta degli ex colonialisti franco-inglesi, mossi non certo dalla filantropia (che non li ha mai contraddistinti), e della “cosca vincente” degli “adviser” di Obama (tirato, suo malgrado, per la collottola) è finita come tutti sanno. Più che “esportare democrazia”, l’unica cosa che si è riusciti a far arrivare da quelle parti è stata solo una montagna di guai. Per carità, nessuno si sogna di difendere gli autocrati (amici dell’Occidente per decenni) che prima spadroneggiavano come satrapi. Però, quelli che sono arrivati dopo non è che siano tanto meglio. Anzi. La Tunisia è l’unica area dove si piange con un occhio, a dirla chiara. In Libia, che è in preda a una faida tribale, agli americani hanno ammazzato l’ambasciatore e tre ufficiali della Cia. E le prospettive sono nere. La Siria è teatro di una guerra “civile-religiosa” tra sciiti e sunniti che finora ha fatto 100 mila morti. L’Algeria ha le convulsioni, il Sahel, con Mali e Niger in prima linea, è in fiamme; il Ciad potrebbe esplodere da un momento all’altro e il Sudan, spaccato in due, è già esploso. Più a sud, la Somalia è una specie di palude fondamentalista (con i feroci Shabab), mentre il supergigante dell’area, la Nigeria (150 milioni di abitanti) aspetta solo un cerino per incendiarsi e diventare uno scannatoio. Con musulmani, cristiani e animisti pronti a bucarsi la pellaccia. Tralasciamo per un attimo il Golfo Persico e le altre “perle” della diplomazia euro-americana (Yemen, Bahrain e la stessa Arabia Saudita, spaccata da mille correnti sunnite) e risaliamo la Penisola: l’Irak ha un governo (al-Maliki) e una maggioranza sciite. E infatti milizie di questa fazione religiosa, provenienti dall’area di Bassora, sono già entrate in Siria, per dare man forte ad Assad, alawita e nemico giurato dei sunniti ribelli (sostenuti, per la cronaca, dai terroristi di al Qaida). In Libano la guerra civile islamica è già una “conquista”conclamata, raggiunta da Premi Nobel della strategia che bivaccano in molte Cancellerie dell’Ovest. Ma in quest’articolo vogliamo tornare a richiamare l’attenzione dei lettori soprattutto sulla madre (o, meglio, il “padre”) di tutte le disgrazie prodotte, a ciclo continuo, dalla cosiddetta “Primavera araba”: appunto l’Egitto dei Fratelli Musulmani. In preda, come abbiamo già detto, a violente convulsioni sociali, che dimostrano ancora una volta, agli ingenui, ai sognatori e ai gonzi, come la democrazia non possa essere “esportata” e impiantata allo stesso modo delle “facilities” sanitarie. Mohammed Morsi, il “faraone”islamico che gli egiziani si sono scelti in qualità di presidente e che i ”consiglieri” di Obama si sono scelti come alleato (con quale lungimiranza lo stiamo vedendo) è giunto ai verbi difettivi. L’opposizione laica si è coalizzata contro codesto fondamentalista di antico pelo, perché non si fida (e fa bene). Hai voglia di indossare il doppio petto gessato al posto del barracano: chi nasce tondo non può morire quadrato e Morsi “tondo” lo è, di forme e di fatti. Sotto la mano di vernice “democratica” che gli americani gli hanno passato a palate per renderlo presentabile, batte infatti un cuore tutto votato a un Islam duro e puro. Certo, non lo si può definire un estremista stricto sensu, ma un integralista col guanto di velluto di sicuro sì. Intelligente e attento a non scontentare troppo i suoi “patrons”di Washington, che foraggiano l’Egitto con carriolate di dollari, Morsi, quando si fa prendere dalle paturnie islamiche, va per le spicce. E Casa Bianca, Pentagono e Dipartimento di Stato vanno in fibrillazione, chiedendosi: non è che ne abbiamo sbagliato un’altra? Per ora i fatti alimentano i sudori freddi alle terga di Obama e John Kerry. L’Egitto non è la Libia. È una potenza regionale, la vera architrave degli equilibri in tutto il Medio Oriente. Se il piano strategico degli americani dovesse andare a ramengo (e l’impressione è proprio questa), l’Occidente potrebbe perdere, in un colpo solo, carrozza e cavallo, vedendo precipitare l’intera regione nel caos e facendo rimpiangere persino una figura discussa e discutibile come quella del vecchio “raìs”. Il negletto Mubarak.

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