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Egitto, se non è guerra
civile poco ci manca

di Piero Orteca

Quello che si temeva si sta verificando. L’Egitto, architrave di tutti gli equilibri mediorientali, è sull’orlo della guerra civile. Ieri, secondo la BBC inglese, ci sono stati altri almeno 100 morti e 1600 feriti (ma fonti governative parlano di “meno di 40 morti”) negli scontri tra l’esercito e gli islamici che sostengono il presidente Morsi, deposto da un colpo di stato organizzato da Arabia Saudita e da altri Emirati del Golfo Persico (mentre gli americani erano in confusione mentale). Il tutto alla faccia della “democrazia”, di cui tutti i gonzi e i furbastri che affollano il globo terracqueo si riempiono, spesso a sproposito, la bocca. La notte tra venerdì e sabato è di quelle che vanno segnate con la matita rossa, come monito per i cultori della “esportazione” della civiltà occidentale (si fa per dire) a qualunque costo. Specie quando il prezzo del biglietto lo paga la comunità internazionale, mentre il grasso che cola se lo pappano i soliti ex colonialisti franco- inglesi e gli “apostoli della libertà” d’oltreoceano, infoiati dal dio-dollaro. Fonti della “Fratellanza Musulmana”, il partito dell’ex presidente Mohammed Morsi, scaraventato a pedate nelle patrie galere con accuse fabbricate a tavolino, parlano anche di migliaia di feriti. Notizia rilanciata dall’agenzia di stampa Mena. E mentre il Ministero della Sanità egiziano, controllato dai golpisti, cerca di ridimensionare il bilancio delle persone uccise, testimoni oculari riferiscono di decine e decine di cadaveri ammassati nell’ospedale da campo allestito dalla “Fratellanza” nei pressi della moschea di Rabaa el Adaweya. Conferme del massacro sono giunte anche da Al Jazeera, una sorta di “CNN araba”, che avanza addirittura il numero di 120 morti, causati dagli spari ad altezza d’uomo di soldati e polizia. Naturalmente il governo, poco democraticamente autonominatosi (sfruttando le prime sommosse “laiche” di Piazza Tahrir, orchestrate da un nugolo di servizi segreti) cerca di rivoltare la frittata, accusando della mattanza…le stesse vittime. Insomma, se non ci fosse da piangere, ci sarebbe da ridere. Anche se il vicepresidente, El-Baradei, chiede ai militari di non usare la mano pesante. Tanto per sgombrare il terreno dalle osservazioni dei profeti “del giorno dopo”, diciamo subito che i rischi legati alla cacciata di Mubarak, dittatore in doppio petto, erano chiari a molti osservatori. Esclusi forse coloro che bivaccano, a pensione completa, nelle principali Cancellerie occidentali. Inglesi e francesi e, a ruota (con molte esitazioni) gli americani, hanno tolto il tappo al Vaso di Pandora dentro cui era stipato l’universo islamico con la scusa (pietosa o patetica, fate voi) di “esportare la democrazia”. Proprio loro che negli ultimi due secoli si sono messi il mondo sotto i piedi! Peccato che le elezioni in Egitto le abbiano poi vinte (regolarmente) i Fratelli Musulmani, sostenuti (per chi ci capisce qualcosa) nientemeno che dai “consiglieri” di Barack Obama. Risultato: i venti ciclonici scatenanti da cotanta, sconsiderata, idiozia “strategica” stanno squassando il Nord Africa. Con la velocità e la forza di una devastante pandemia, i virus della defunta “Primavera araba” continuano a contagiare, Paese dopo Paese, tutta la Mezzaluna, dalle coste atlantiche fino al Golfo Persico. Tralasciamo l’effetto-domino che sta galoppando verso la fascia sub-sahariana e comincia già (fate gli scongiuri) a infettare il colosso dei colossi, la Nigeria, e dedichiamoci, per ora, alle rogne che continuano a moltiplicarsi quasi alle porte di casa nostra. L’ultima in ordine di tempo, oltre all’Egitto, riguarda la Tunisia, alfa e omega di tutte le ribellioni panarabe e Stato che si reputava, alquanto ingenuamente, al riparo da derive “islamiste”. O almeno così pensavano e garantivano gli “esperti”( si fa per dire) anglo-francesi e americani, quando si sono messi a giocare col “piccolo chimico” della diplomazia. Facendo saltare per aria tutto il laboratorio nordafricano e uscendo da sotto le macerie anneriti, pesti e sanguinanti. Inutile ripetere a memoria le stazioni della Via crucis che, prima della dirimpettaia Tunisia, hanno segnato l’alzata d’ingegno degli ex colonialisti e dei nuovi “padroni del mondo” (o presunti tali): Libia, Siria, Yemen, Libano, Mali, Sudan e, last but not least, proprio l’Egitto. Tutti Paesi che erano governati da autocrati e dittatori con miliardi di difetti, ma con un solo impagabile pregio. Quello di non aver mai fatto poggiare un alluce ai terroristi islamici, sponsorizzati da al Qaida, sui loro territori. Ma torniamo all’Egitto, dove i chiari di luna sono quelli che sono. La tensione ormai si taglia col coltello. Migliaia di persone si sono ammassate davanti alla grande moschea del Cairo, mentre i caporioni incitano apertamente dal palco i miliziani islamici a intervenire e a prendere la guida della resistenza, invocando la scarcerazione di Morsi. Che è stato accusato anche di “trescare” con Hamas, aprendo e chiudendo, a comando, i varchi della Striscia di Gaza. Morsi sarebbe in buona salute secondo quanto ha dichiarato Nasser Amin, capo della Ong egiziana per i diritti dell'uomo. I sanguinosi scontri di ieri sono frutto, è bene sottolinearlo a chiare lettere, dell’appello rivolto dall’uomo forte del regime, il Ministro della Difesa El-Sisi, ai rivoltosi di Piazza Tahrir (anti-Morsi) a manifestare contro gli islamici. Pronta la reazione dei “Fratelli Musulmani”, che sono scesi in strada con un massiccio corteo, antipasto di una possibile guerra civile. E mentre l’esercito fa l’arbitro “strabico”, prendendo le parti dei laici, la situazione è sempre più esplosiva, dato che l’Egitto non è la Libia e che la sua tradizione di fondamentalismo islamico, sia pure rinfrescato da una mano di vernice “rispettabile”, dura da lunga pezza. E così, come in un tragicomico giochino dell’oca, torniamo alla casella di partenza: la Primavera araba e i suoi sconquassi conseguenti. Forse non vi sembrerà ancora granché cotanto macello a fronte della sacralità del verbo libertario; cioè, tradotto in termini più spicci, della “esportazione della democrazia” cara a Sarkozy, Hollande, Cameron, Obama e, prima di lui, a Bush. Che ovviamente la usava come alibi per suonare la tromba del Settimo cavalleria, quando si vestiva da cow-boy che insegue gl’indiani. Per non parlare di Bill “Settebellezze” Clinton, che la dottrina dell’intervento “umanitario” se l’era pure inventata. Tra un sigaro e l’altro. No, a essere chiari, tutto questo ambaradan d’Egitto (è il caso di dirlo) ci ricorda le sagge parole di Benjamin Disraeli, primo ministro britannico dell’Ottocento, il quale usava dire che “gli Stati non hanno né amici e né nemici, ma solo interessi”. Insomma, meglio un autocrate “compiacente” a distanza che un terrorista fuori di testa sull’uscio di casa. Ci spieghiamo. Le relazioni internazionali, come la vita, sono fatte di priorità. Ad esempio, quella di non esplodere con l’aereo sul quale viaggiamo o di non vederci arrivare sulla capa una nuvola di gas nervini, che ci lascerebbe stecchiti nel giro di pochi secondi. Certo, l’esportazione della democrazia può essere un “valore”. E poi fa pure “chic” parlarne con gli intellettuali terrazzaioli, che ti guardano, di sguincio e con sussiego, mentre si strafogano di ostriche e champagne. Ma il sollievo di veder tornare a casa i nostri cari dopo un viaggio senza attentati lo supera di assai, questo “valore”. O no?

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