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Siria, ecco il piano
d’invasione americano


di Piero Orteca

Alea iacta est. Il dado è tratto. Proprio mentre al Qaida rialza la testa e gli Usa temono lo scatenarsi di un’ondata di attentati, secondo autorevolissime fonti israeliane Obama avrebbe varcato il Rubicone siriano, decidendo d’intervenire militarmente, in prima persona, contro Assad. Tirato per la giacca da tutte le parti, a cominciare dalla “cosca vincente” (per ora) dei suoi adviser, il presidente degli Stati Uniti sembra, dunque, aver superato i mille dubbi che rendono insonni le sue notti. Ma con una clausola non da poco: la guerra americana contro Damasco non scatterà subito. Gli alleati sauditi, kuwaitiani e degli Emirati, si sarebbero messi di traverso, assieme ad alcuni “generalissimi” del Pentagono. I quali conoscono bene i loro polli e ricordano che, in Medio Oriente, si sa quando si comincia, ma non si può prevedere come poi vada a finire. Anche le teste d’uovo di Gerusalemme esitano. Avere una torma di jihadisti a ridosso del Golan, dopo l’eventuale liquidazione di Assad, non è proprio un pensiero di quelli che lascino tranquilli. Insomma, calma e gesso. Anche perché il pateracchio egiziano rischia di sfociare in una tragica guerra civile, di tutti contro tutti, mentre, nel Sinai, i fondamentalisti islamici mettono bombe, in quantità industriale, un giorno sì e l’altro pure. Certo, la notizia (“classificata” come il segreto di Pulcinella) sta facendo il giro delle anchilosate Cancellerie occidentali e ha già acceso le lampadine rosse nelle stanze che contano, al Cremlino. La “Gazzetta del Sud” è in grado di fornire i primi dettagli del piano d’intervento americano, già abbozzato in otto punti. 1) Creazione di una “no-fly zone” (zona d’interdizione al traffico aereo) nelle aree centrali e meridionali della Siria; 2) Occupazione della regione che va dalla frontiera giordano- palestinese fino ai sobborghi di Damasco. Tenuta entro il raggio delle artiglierie degli invasori; 3) Le truppe utilizzate saranno esclusivamente costituite da ribelli siriani. Ovviamente con l’assistenza di consiglieri militari alleati. Obama ha assolutamente escluso (chiamalo fesso) la partecipazione di truppe di terra americane ai combattimenti; 4) I consiglieri addestreranno le forze ribelli in Giordania. Paese che rappresenterà la “testa di ponte” di tutta l’operazione (a suo rischio e pericolo, aggiungiamo noi); 5) Un enorme campo d’addestramento e ingenti depositi sono già stati approntati dalle parti di Amman; 6) Caccia americani incaricati di imporre la “no-fly zone” sono stati dislocati in tutto il Medio Oriente, pronti a decollare con un preavviso di 36 ore; 7) Una brigata formata da elementi di etnia drusa sarà incaricata di occupare il “triangolo sensibile” tra Irak, Giordania e la stessa Siria; 8) Le forze armate Usa di stanza nell’area si terranno pronte a intervenire (sempre via aerea) in caso di possibili rappresaglie del governo di Damasco. Tutto definito, dunque? Macché. Spifferi di corridoio parlano di una forte opposizione dei sauditi, degli Emirati e del Kuwait, per niente convinti del piano discusso dagli strateghi di Washington. Gli arabi “moderati” sospettano che, per mettere tutti d’accordo, gli americani abbiano preparato uno sfonda-piedi di quelli tosti: stracciare la Siria in quattro parti, da dividere tra curdi (a nord), drusi a sud, alawiti a ovest e sunniti nella regione centrale, compresa la capitale Damasco. In particolare, l’Arabia Saudita vede nel piano Obama per la Siria una sciagurata replica della tripartizione irakena (sciiti, sunniti e curdi) voluta da Bush, che finora ha causato solo una guerra civile lunga dieci anni. Oltre a una catasta di morti. Gli Emirati, poi, mettono le mani avanti, guardando con sospetto alle recenti aperture della Turchia verso i curdi siriani: una conferma che la volontà americana è quella di spartire la Siria in mini-Stati che potrebbero creare un incentivo alla “balcanizzazione” di tutta la Mezzaluna, Libia e Libano in testa, per non parlare dello Yemen. Proprio la durissima opposizione dei sauditi e dei loro vicini- alleati del Golfo Persico sembra avere ingrippato, almeno per ora, la “pensata” americana, che ha contribuito ad affumicare ulteriormente l’atmosfera di tutta la macro-area di crisi, dove ormai non si vede più niente a un palmo dal naso. Tra le altre cose, a Washington si sono diffuse diverse scuole di pensiero sulla necessità di continuare a spedire razzi, missili ed esplosivi ai “ribelli”. In molti temono una replica delle cappellate prese in Afghanistan, quando gli Usa, per rafforzare i mujaheddin islamici in lotta contro gli invasori russi, finirono per armare fino ai denti Osama bin Laden e al Qaida. Con i risultati che tutti conosciamo. Né le notizie in arrivo dal campo di battaglia allargano i cuori alla speranza. Proprio ieri i rivoltosi hanno dato l’assalto a un deposito dei lealisti, nella zona di Qalamun, vicino alla capitale Damasco, impossessandosi di armi pesanti. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, tra i gruppi che hanno partecipato al saccheggio c’è anche Jabhat al-Nusra, la filiale locale di al Qaida. L’incubo di ripetere le maccheronate commesse dalle parti di Kabul, ha comunque indotto gli alti papaveri del Pentagono a frenare e a cercare di far ragionare la Casa Bianca sulla ipotizzata invasione del Paese di Assad. Vedremo. Anche se la necessità di agire per evitare la disastrosa caduta di Aleppo, dopo quella di Homs, potrebbe spingere Barack Obama a muoversi scompostamente. L’impressione di molti osservatori internazionali è che gli strateghi del National Security Council finora non ne abbiano azzeccata una. E tanto per capire di che cosa stiamo parlando, cioè di fiducia “zero” nello stellone dello Zio Sam, va segnalato che gli inviati dell’Arabia Saudita sono subito corsi in direzione di Mosca (latore il capo dell’Intelligence, il principe Bandar bin Sultan) a spifferare all’imbufalito Putin il “napoleonico” progetto di battaglia scarabocchiato da Obama e dai suoi tremila adviser. La qual cosa ci porta a ribadire un concetto che va masticato, inghiottito, digerito e metabolizzato fino all’ultimo boccone: la chiave per cercare di comprendere le paturnie della “foreign policy” di Washington sta tutta nel suo “decision making process” o, per dirla più terra terra, nel modo col quale vengono fatte le scelte. Questo avviene mentre le posizioni si rovesciano a ogni istante, i nemici diventano nuovi “amici” (come nel caso degli Hezbollah, aiutati dalla Cia) e i vecchi alleati (i sauditi, per fare qualche nome) giocano, nella migliore delle ipotesi, con due mazzi di carte. Insomma, Superbarack sarà pure un presidente onesto e brillante, ma a volte, come in questo caso (e in quelli libico ed egiziano) va in confusione mentale. Sulla sua scrivania, nello Studio Ovale, si affollano tonnellate di dossier e report, che dicono tutto e il contrario di tutto sulla “madre di ogni crisi” (quella mediorientale), proponendo millanta soluzioni, dalle più “ragionate” fino a quelle ideate dagli specialisti “della porta accanto”. E il poveretto, ritenuto (sulla carta) l’uomo più potente della Terra, ma che invece, alla fin fine, è solo un “primus inter pares”, chiude gli occhi e sceglie una carpetta. Sperando che sia, per lui e per noi, quella giusta.3

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