Lunedì 23 Dicembre 2024

I nuovi terroristi,
bombe umane in giro
per il mondo

 Si riapre bottega. Non perché la minaccia sia passata. Anzi, i segnali che arrivano da “radio- terrore” non sono propriamente tranquillizzanti. E la sequela di bombe scoppiate ieri a Baghdad, nei quartieri sciiti, che hanno fatto una catasta di morti, è più di un monito. Ma gli americani non possono continuare a tenere ambasciate e consolati chiusi. Giocare a fare i “poliziotti del mondo” e gli “esportatori” della democrazia tanto al chilo ha un prezzo. Salato. E i nostri alleati a stelle e strisce lo stanno pagando tutto, col rischio di andare in crisi di nervi. Detto per inciso, se fossimo al posto di inglesi e francesi staremmo lo stesso in campana: gli ex colonialisti, dopo aver combinato un macello cavalcando la Primavera araba, non sembrano particolarmente amati da quelle parti. Dunque, oggi rialzano la saracinesca le missioni diplomatiche Usa in 18 Paesi “a rischio”. L’unica ambasciata a rimanere sprangata sarà quella di Sana’a, nello Yemen, che per il Dipartimento di Stato è l’obiettivo numero uno degli estremisti sunniti (legati ad al Qaida). Barbudos tagliagole che, però, gli americani, indirettamente aiutano e armano in Siria contro Assad (alawita-sciita), distribuendo (col salame sugli occhi, è il caso di dirlo) esplosivi e missili, che poi finiscono nelle mani delle brigate fondamentaliste di al-Nusra. E se fate fatica a capire la logica di cotanta strategia elaborata dagli esperti dello Zio Sam, non datevi pena. Tanto, non ci capiscono il resto di niente neppure loro. Anche il Consolato di Lahore, in Pakistan, resterà chiuso coi catenacci, dato che da quelle parti le bombe scoppiano un giorno sì e l’altro pure. L’allerta per lo Yemen e per il grande Paese asiatico, secondo il portavoce del Dipartimento di Stato, Jen Psaki, continuerà sine die. Per ora, il lavoro “sporco” lo fanno i “drones”, gli aerei senza pilota, che giovedì scorso hanno ucciso 14 terroristi sauditi, dalle parti di Sanaa. Lo Yemen è considerato dagli Usa una vera roccaforte di al Qaida e gode la sinistra fama di essere il posto più pericoloso del mondo per gli occidentali. Comunque, al di là degli obiettivi segnali di pericolo, che arrivano dalla Cia e dalla National Security Agency (che intercetta conversazioni telefoniche dal Sahara fino al Polo Nord) molti analisti sono convinti che Obama abbia voluto mettere le mani avanti, parandosi la botta dalle devastanti critiche che si scatenerebbero dopo un ipotetico attentato. Un fatto però è sicuro: anche senatori e deputati, democratici e repubblicani, senza distinzioni di sorta, hanno sposato il grido d’allarma del presidente. E se le conferme arrivano dai Comitati per l’Intelligence, allora significa che qualcosa di grosso effettivamente si muove. Qualcosa che, dicono spifferi di corridoio, fa veramente paura, per i riferimenti colti nelle conversazioni intercettate. Si tratterebbe di progetti d’attentato in grande stile “come non si è mai sentito negli ultimi dieci anni”. Se gli americani rilasciano avvertimenti “a rate”, gli israeliani avanzano, invece, le loro (autorevolissime) ipotesi, raccolte negli ambienti Usa che contano. La cosa che ha fatto perdere il sonno a Obama e ai tre quarti dei suoi “adviser” è la possibilità che i terroristi utilizzino tecniche nuove, con esplosivi non “detectable”, cioè non rilevabili. Non si tratta solo di “sostanze liquide”, come è stato detto. Ma di ordigni impiantati sotto pelle o, addirittura, in prossimità di organi interni, che un aspirante kamikaze potrebbe tranquillamente portarsi addosso su un aereo. La terrificante eventualità è nota da tempo ai servizi segreti occidentali. Le prove arriverebbero direttamente dalla Penisola Arabica, dove chirurghi “fondamentalisti” lavorano già da tempo al piano, che sembra uscito direttamente dal libro di Frankenstein. In America, dicono gli israeliani, i responsabili della sicurezza sono già ai sudori freddi. Colpisce, in particolare, la tranquillità e la tracotanza mostrata da jihadisti e qaidisti durante le loro telefonate, dove si parla di un attentato “grosso e strategicamente importante”. Insomma, la paura fa 90, anche perché l’area geografica “sensibile” va dalla Mauritania al Bangladesh, cioè, in pratica, mezzo mondo. Mettendo nel mucchio anche il Medio Oriente, il Nord Africa, il subcontinente indiano e la “homeland”, gli stessi Stati Uniti. E non è finita qua. Gli attacchi potrebbero essere coordinati tra diversi “commandos”, squadre speciali di terroristi sguinzagliati in regioni diverse e lontane. La minaccia è stata presa sul serio anche a New York, dopo che il Dipartimento di Stato aveva lanciato l’allerta per l’estero giorno 2 agosto. Il 3 il National Security Adviser, Susan Rice, ha convocato una drammatica riunione d’emergenza per discutere la “minaccia potenziale”. Lo stesso ha fatto Lisa Monaco, Assistant della Casa Bianca per la Sicurezza interna e le Politiche antiterrorismo. Ma i puntini sulle “i” sono stati messi, in seguito, dal Capo di Stato maggiore del Pentagono, Martin Dempsey. Il generale, intervistato dalla ABC, ha detto, tra le altre cose, che “le minacce si vanno facendo più specifiche” e che “non riguardano solo l’America”. Insomma, traducendo dal burocratese, siamo tutti nel ballo. Nessuno escluso. Anche se, come abbiamo detto prima, c’è una scala delle priorità del rischio che riguarda, in particolare, determinati Paesi. Secondo diversi analisti, nel segnale di allerta degli americani ci sarebbero, in ogni caso, elementi in chiaro-scuro, di cui bisogna tenere conto. 1) Intanto l’allarme, drammaticamente lanciato, in prima persona, dal presidente Obama. Azione irrituale che farebbe presagire la gravità e la serietà della potenziale minaccia. 2) Come mai, però, pochi Paesi si sono mossi di conseguenza? Solo inglesi, francesi e canadesi pare si siano mobilitati. La minaccia è specifica? 3) Gli americani attribuiscono l’allarme alle conversazioni intercettate dalla NSA (National Security Agency). Strano. Tutti gli esperti di antiterrorismo sanno che al Qaida non utilizza il telefono nemmeno per gli auguri di buon compleanno e preferisce servirsi di “corrieri”. Metodo all’antica, ma ritenuto più sicuro. 4) Il rompicapo Yemen. Gli Stati Uniti in diversi anni non sono riusciti a cavare un ragno dal buco in quest’area diventata il regno di AQAP (acronimo di Al Qaida in Arab Peninsula). Si servono dei “drones” ma non spediscono soldati di terra, per evitare furiose polemiche in caso di perdite. Il vice-capo di AQAP, Said al-Shiri, lo avevano in mano. Era detenuto a Guantanamo. Lo hanno liberato sotto la spinta delle organizzazioni “umanitarie”. E ora lui ricambia piazzando bombe dove può. Sai che trionfo per l’esportazione della democrazia! 5) Il mistero Ayman al Zawahiri. Il nuovo capo di al Qaida continua indisturbato a pianificare la guerra del terrore, senza che la Cia riesca a mettergli il sale sulla coda. D’altro canto, se è vero come è vero che Osama bin Laden se lo sono venduto i pakistani, allora forse bisognerà aspettare che qualcuno si venda Zawahiri. Medico egiziano che esorta alla guerra santa in favore del deposto presidente Morsi. 6) Dove è finito il nugolo di terroristi scappato (o fatto fuggire) dalle “democratiche” galere libiche, irakene e pakistane? L’Interpol teme che questi tagliagole si siano già riuniti ad al Qaida. Anche se nessuno dei loro Paesi d’origine li cerca o sembra preoccuparsi più di tanto. 7) Last but not least. Il drammatico avvertimento lanciato da Barack Obama stride con le precedenti (e rassicuranti) dichiarazioni sul presunto indebolimento del terrorismo islamico internazionale. Al Qaida, secondo quanto affermato (quando Berta filava) dalla Casa Bianca, non sarebbe stata più in grado di effettuare attentati su grande scala. Ora, a quanto pare, nel pensatoio dello Studio Ovale hanno cambiato idea di gran corsa. In attesa del prossimo botto.

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