Nuovo bagno di sangue in Egitto, dove sono stati proclamati lo stato d’emergenza e il coprifuoco. Reparti dell’esercito hanno sparato (ma dicono di avere risposto a fucilate indirizzate contro di loro) sui dimostranti islamici, che protestavano a sostegno del presidente Mohammed Morsi, deposto, oltre un mese fa, da un colpo di Stato organizzato dai militari. I morti, secondo il Ministero della Sanità, sarebbero 278 (tra cui un cameraman di Sky News e una reporter egiziana) e i feriti circa mille. Anche se fonti della Fratellanza Musulmana sul sito web “Ikhwanonline” parlano di un vero e proprio massacro, che avrebbe fatto addirittura 2000 morti. Cifra che, detto francamente, sembra spropositata. Il vicepresidente El Baradei, nel frattempo, si è dimesso. Il problema vero per i generali del Cairo e per i numerosi esponenti cosiddetti “democratici” di Piazza Tahrir (che hanno sostenuto il golpe) è che le manifestazioni si sono allargate a macchia d’olio, dal Cairo ad Alessandria, fino ad Assietta e Menia. Testimoni riportano notizie di un veloce smantellamento del campo di resistenza organizzato a Giza, mentre più complessa è la situazione a “Nasser City”, quartiere dove i soldati hanno prima fatto uso di gas lacrimogeni, per poi sparare ad altezza d’uomo con le mitragliatrici. In quest’area, a ridosso della grande moschea di Rabaa al-Adawiya, sono entrati in azione blindati, carri armati e bulldozer. Stessa cosa per il sit-in di Nahda Square. È stata una vera mattanza, alla faccia dello “strabismo democratico” di europei e americani, che evidentemente strepitano e si stracciano le vesti solo quando fa loro comodo. Mentre gli “intellettuali” in servizio permanente effettivo e i “progressisti” del piffero tacciono. Clamorosamente. O perché sono in vacanza ai Caraibi o perché hanno la bocca piena di ostriche e champagne. E allora parliamoci chiaro: la democrazia, se tale è, deve valere per tutti. Morsi ha vinto regolarmente le elezioni, ma qualcuno non aveva messo in conto che si trattava di un integralista in doppio petto. Gli americani, che se lo sono scelti come amico dopo avere scaraventato in mare, con tutte le scarpe e con una pietra al collo, il loro ex proconsole, Hosni Mubarak, evidentemente hanno sbagliato i conti. Sono rimasti in mezzo al guado, subendo tutti gli effetti perversi della loro tragicomica politica mediorientale e finendo per andare al rimorchio dell’Arabia Saudita e dei militari egiziani, che li hanno scavalcati infischiandosene di tutti i “consigli” in arrivo da Washington. Insomma, l’avrete capito, la situazione è sostanzialmente sfuggita di mano a Obama, costretto a inseguire, con tanto di lingua di fuori e con la schiena bagnata di sudori freddi, gli avvenimenti sul terreno. E così l’ Egitto, che doveva diventare l’esempio più fulgido della nuova strategia araba della Casa Bianca (la tanto strombazzata “Primavera”), si è semplicemente trasformato in una fabbrica di incubi. Un deposito di kerosene, dove il primo fesso che passa, con un cerino in mano, può mandare arrosto i tre quarti del Medio Oriente. La rivolta, degli islamici (vera musica per le orecchie di Ayman al-Zawahiri e per tutti i qaidisti del pianeta), come detto, si è ormai allargata, oltre alla capitale, alle aree del delta nilota, a nord del Cairo, e alla grande città di Alessandria. Niente paura, però: dopo che i buoi sono scappati dalla stalla, a Washington hanno dato l’ordine di sbarrare i cancelli. Il Dipartimento di Stato ha autorizzato lo staff non essenziale e le famiglie a lasciare il Paese e ha invitato i compatrioti americani a tenersi alla larga dall’Egitto, dove, con tutta evidenza, il piano di “esportazione della democrazia” se lo sono messo sotto i piedi. Un aereo carico degli “apostoli” della libertà a stelle e strisce è già scappato, di gran corsa, alla volta di Francoforte, mentre il resto del personale diplomatico si è barricato nell’ambasciata. Intanto, le proteste dei “pro-Morsi” proseguono, mentre i sostenitori dei Fratelli Musulmani, in un clima da guerra civile, ormai scendono in piazza fino ad Assuan e, quello che è ancora peggio (e inquietante) si scagliano anche contro i cristiani copti. Probabilmente, gli animi si sono vieppiù esasperati dopo le notizie, diffuse in questi giorni, di un “complottone” a più mani. I detective (disinteressati?) sono stati gli israeliani, che hanno scoperchiato il tombino della cloaca diplomatica e spionistica che stava dietro al colpo di Stato egiziano. Bene, i tenaci segugi di Tel Aviv hanno scoperto che, in un solo giorno, Arabia Saudita ed Emirati Uniti hanno versato nelle esauste casse del governo egiziano (dei generali) ben 8 miliardi di dollari. Liquidi, solidi o aeriformi (crediti, obbligazioni e altri ammennicoli) i soldi serviranno a garantire la “transizione” dopo il colpo di Stato. Cioè, tradotto dal politichese, a non far saltare il ticchio a tutte quelle masse che, più che essere affascinate dal verbo della democrazia, erano imbufalite per la fame. Tutto gratis e frutto della solidarietà sunnita di stampo moderato? Calma e gesso. Gli analisti sono convinti che la bomba a orologeria, preparata a Riad e negli Emirati, ma scoppiata in mano a Obama (costretto a ingoiare il rospo) abbia motivazioni complesse. Il principale nemico dei sauditi e degli Emirati del Golfo è l’Iran sciita. E Morsi, il presidente egiziano defenestrato, pur essendo fondamentalmente un Fratello Musulmano sunnita, si è tenuto le mani libere, giocando su più tavoli e facendo la corte anche ai “nemici degli amici”. Insomma, I sauditi non si fidavano dello spregiudicato “Fratello”, che trescava anche con gli ayatollah, con Hamas, e, soprattutto, con gli sceicchi stramiliardari del Qatar, troppo “individualisti” e poco amati in tutto il Golfo. Morale della favola: gli hanno preparato il “piattino”, senza avvisare gli americani. Che hanno continuato a difendere una causa persa, arte in cui sono maestri. Quando Obama si è accorto (meglio tardi che mai) che a Morsi, presidente democraticamente eletto, avevano fatto le scarpe gli stessi “confratelli” sunniti, ha abbozzato e, con un giro di valzer, si è unito al complotto. Passando, sia chiaro, dalla porta di servizio. Quella da dove entra la servitù. Per ora, la partita la comandano i Signori del petrolio e hanno (guarda tu!) sempre l’asso di briscola in mano. Quale? Facciamo quattro conti. Una delegazione degli Emirati è sbarcata al Cairo portando nella valigia 3 miliardi di dollari, uno praticamente in regalo e gli altri due come “crediti a lunghissimo termine” (da scrivere, insomma, nel ghiaccio). Qualche ora e sono arrivati anche i sauditi, cioè gli Zii d’Arabia, con un’altra carriola di fruscianti bigliettoni verdi. Due versati direttamente negli arsi forzieri della Banca d’Egitto, altri due sotto forma di “regalo” per rifornirsi di gas e l’ultimo miliarduccio da utilizzare per le piccole spese o, se occorre, per stabilizzare il cambio. Certo, aggiungono a Gerusalemme, con cotanta iniezione di “concreto ottimismo”, gli 84 milioni di egiziani più che manifestare non vedono l’ora di apparecchiare la tavola. Basterà? Ai Fratelli Musulmani, come abbiamo visto, non proprio. Duri e puri, dopo il trattamento riservato al loro leader sono sull’imbufalito spinto. Specie dopo che sono stati resi noti, in tutti i dettagli, gli “step” del colpo di Stato “a tre mani”. È chiara la volontà dei regimi sunniti “moderati” di creare un asse per arginare la potenza iraniana, poggiando sull’architrave egiziana. La colletta è aperta e in fila si è già messo il Kuwait, pronto a versare ai generali del Cairo un obolo di altri 4 miliardi di dollari. Sempreché facciano in tempo a papparseli, visto che l’Egitto è omai una polveriera e anche loro rischiano di saltare per aria con tutto il registratore di cassa.
Egitto, un “democratico”
bagno di sangue
di Piero Orteca
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