Non è tutto oro quello che luce, direbbero i vecchi saggi. Ma è pur sempre qualcosa, aggiungiamo noi. Specie quando si parla della Cina, colosso dalle mille contraddizioni, dove corruzione, fame di diritti civili e ritmo da rullo compressore in economia, convivono in un groviglio quasi inestricabile. Un Frankenstein del Terzo millennio, che però sta gettando sull’orlo di una crisi di nervi il resto della compagnia di processione. Il capitalismo di Stato in salsa pechinese, con tanto di bandiera rossa ed etica delle ferriere (stile Manchester 1840, per intenderci), fa ammattire e indignare un po’ tutti gli esperti “de noantri”. In particolar modo quelli che si riempiono le bocche di chiacchiere, non hanno capito un fico secco della crisi e pensano che, con “casa, sigarette e benzina” (cioè “la manovra della zia Peppina”), si possano risolvere i problemi di un sistema economico marcio fino al midollo. Tiremm innanz. Se ci mettiamo a discutere il modello economico cinese, con tassi medi di sviluppo dell’8%, registrati durante la crisi partita dai porcilai finanziari americani, allora dovremmo avere il coraggio di fare anche una riflessione sui guai del capitalismo d’antan, capace di giocarsi a poker i risparmi di tutti. E di salvare le terga delle banche, spremendo i contribuenti come un tubetto di dentifricio. Oggi si chiacchiera sulle difficoltà cinesi, perché il Pil sale “solo” del 7,5%. Ma a guardare i numeri degli altri c’è da rimanere secchi, fidatevi. Dunque, Pechino è croce e delizia degli studiosi di economia, i quali, dalla stanza di un ministero o dal Sancta sanctorum di un istituto centrale di emissione, pensavano di poter “d irigere” tutto il carrozzone finanziario. Arroganti, come certi speziali convinti di poter curare le malattie pestando nel mortaio agli e fravagli. Persino un “guru”, l’ex governatore della Federal Reserve americana, Alan Greenspan, ha indossato il cilicio e si è cosparso abbondantemente il capo di cenere, flagellandosi a sangue. Il “mitico”, nel suo ultimo libro, “The Age of Turbulence”, ammette che mala tempora currunt, perché i modelli teorici elaborati dagli specialisti sono così sofisticati, ma così sofisticati… che non ci capiscono più niente neanche loro. Figuratevi i comuni mortali! Ma torniamo al “mistero” (è il caso di dirlo) del colosso asiatico, oggetto della nostra analisi. Una volta si diceva che “la Cina è vicina”. Oggi, invece, è sempre più lontana e, continuando di questo passo, tra un po’ la vedremo solo col binocolo. Mentre tutto il mondo (o quasi) gira col cappello in mano elemosinando spiccioli, per mettere d’accordo il pranzo con la cena, gli omini dagli occhi a mandorla, con una piroetta di 180 gradi e un paio di tuffi carpiati nella piscina delle ideologie, hanno mandato al macero i sacri testi del marxismo più o meno ortodosso, optando per una prosaica filosofia della pagnotta. Sì, è vero, il regime rimane formalmente “comunista” e “popolare”, con tanto di bandiera rossa e tutto l’armamentario dei “p a r a f e rnalia” che hanno fatto la storia del XX secolo. Ma non c’è manco bisogno di grattare un poco di vernice per capire che ci troviamo di fronte a tutto il contrario: una forma “dura e pura” di capitalismo di Stato. Con la falce e il martello che fanno la figura degli ombrellini decorativi sopra a un cocktail Daiquiri, di quelli che Hemingway si faceva servire (scherzi del destino) al vecchio “Floridita” dell’Avana. Persino l’Economist, una delle seriose bibbie del “libero mercato” (che ogni tanto ne azzecca una), ha dedicato diversi “speciali” a questo nuovo modo di fare economia, che mette assieme molti bastoni e qualche carota. Pechino, insomma, è ormai diventata l’ultima frontiera dei Re Mida, capaci di trasformare, novelli alchimisti della ricchezza, tutto quello che toccano in dollari. Ma siccome le chiacchiere stanno a zero e i numeri tagliano impietosamente il respiro ai vecchi musicanti, che ancora soffiano nei tromboni della retorica, diamo uno sguardo alle “p e r f o r m a nce” dei comunisti cinesi, in doppio petto griffato e valigetta ventiquattrore. La produzione industriale (il vero termometro della salute economica di un Paese) cresce dell’8,9%, a fronte di una crisi mondiale che ha pesato negativamente per tutti. “Grosse Deutschland”, si è quasi fermata (+2%,) gli Stati Uniti, “miracolati” da Sant’Obama, tengono botta (+2,1%). Gli altri “grandi”, per usare una metafora pneumologica, hanno il fiatone, l’Italia l’e n f isema (-2,1%) e il Giappone è sotto la tenda a ossigeno (-4,8%). Certo, come ogni cambiamento avvenuto a rotta di collo, la crescita esponenziale della Cina si tira appresso squilibri, agguati finanziari all’arma bianca, ingenuità e una foia di arricchirsi che induce ogni omino con gli occhi a mandorla a indossare gli scarponi chiodati, per passare sul cadavere dei concorrenti. Lo Stato vigila meticolosamente perché il dollarificio sia ben oliato e nessuno possa mettere polvere negli ingranaggi produttivi. In Cina non esistono “r i g i d ità di sistema”, e se ci sono non si vedono. O, meglio, non conviene vederli, perché l’e s i g e nza di abbuffarsi a carote rende l’utilizzo di un nodoso bastone frequente e doloroso. La burocrazia, erede dell’asfissiante macchina amministrativa comunista, è ancora una zavorra capillare, ma i nuovi Deng Xiaoping stanno disboscando la palude dei timbrifici col machete. Ci vorrà tempo, ma già oggi i funzionari e gli impiegati che “rallentano”, come accade in altre parti nel mondo, rischiano pesanti “sanzioni”. Non solo d’ufficio. Le verifiche vengono attuate secondo uno schema a incrocio tra la “g overnance” statale e quella di partito. Vince chi porta numeri più alti, un po’come accadeva nei vecchi regimi pianificati. Solo che là baravano spudoratamente, trasformando in due giorni i pulcini in gallinacci, producendo scarpe senza tacchi e siringhe per gli ospedali accompagnate dagli aghi del materassaio. Tanto nessuno controllava. E se controllava finiva in Siberia. Comunque, i cinesi non crescono economicamente solo perché sudano come camalli, hanno un sistema produttivo che ricorda la frenesia (e l’e fficienza) di un formicaio o perché puntano su una politica commerciale aggressiva. La verità è che il loro modello di capitalismo “autoritario”, per usare un eufemismo, non conosce ostacoli. Concetti come “elasticità di output”, “f u n z i one di utilità” e di “p r o d u z i one”, “concorrenza monopolistica” e via discorrendo di questo passo, trovano laggiù un’interpretazione fin troppo disinvolta. Per non parlare della “tutela dei lavoratori”, questa sconosciuta. Aumentare la produzione a qualsiasi costo, vendere anche frigoriferi agli eschimesi, accumulare liquidità e reinvestire a tiro di palla fanno parte di una “f i l osofia” che non teme (e non vuole) confronti. Chi ostacola, per qualsiasi motivo, l’a l g o r i tmo che porta a imbottire i depositi di dollari, come Zio Paperone, è un “nemico dello Stato”. Certo, non è il massimo della democrazia né un modello cristallino di relazioni industriali (e sindacali) quello che Pechino fa girare a tutta velocità. E poi i consumatori sono conquistati puntando sulla quantità, mentre la qualità resta un concetto troppo raffinato. Se a questo si aggiunge lo spirito garibaldino con cui i cinesi si procurano e usano i fattori della produzione (materie prime, energia, lavoro), le liberalizzazioni di facciata e i criptici protezionismi, il risultato finale è presto detto. Televisori, materiale elettrico, prodotti alimentari, giocattoli, tessuti e coloranti, a volte, rivelano sgradite sorprese. Mentre i produttori del resto del mondo, mani ai capelli, non sanno più a che santo votarsi per tirare a campare. Perché la Cina corre più veloce delle regole.
Se la Cina corre più
veloce delle regole…
di Piero Orteca
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