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Iran, dopo 34 anni
cade il muro
con l’America


di Piero Orteca

 Tre indizi fanno una prova, scriveva Agatha Christie. Beh, venerdì notte ne abbiamo avuto una formidabile conferma, visto che Barack Obama e il presidente iraniano Hassan Rohani si sono parlati per telefono. Lo aveva già anticipato, in qualche modo, il giornale conservatore persiano “Kayhan”, che rappresenta l’organo ufficiale della “Guida Suprema” Alì Khamenei e delle Guardie Rivoluzionarie, subito ripreso dagli analisti israeliani. “Kayhan” aveva diffusamente descritto il piano (non tanto) segreto che fa da accordo-quadro anche per la Siria. Erano ben 34 anni che tra la Casa Bianca e i vertici della teocrazia persiana non venivano scambiate, manco a monosillabi, quattro parole. Il “miracolo” non è altro che la cartina di tornasole di quanto avevamo sostenuto da circa un mese: l’accordo con Damasco fa parte di un “pacchetto” più ampio, comprendente la riapertura di serrate trattative sul nucleare di Teheran. Il tutto con la benedizione di “compare” (degli iraniani, è ovvio) Putin che, da dietro le tende della diplomazia, sbircia, sogghignando di sguincio, come vanno gli affari. E dopo la pantomima sulle armi chimiche siriane, quando gli Usa sfogliavano le margheritine (almeno un mazzo) per decidere se attaccare o meno, dobbiamo dire che al Cremlino stanno sbottigliando. Il “risiko” di Mosca è risultato vincente. Niente lancio di missili sulla Siria, giravolta a 180 gradi della politica americana in Medio Oriente, museruola ai Capitan Fracassa anglo-francesi e, soprattutto, invito per Obama, subito accettato, di sedersi al tavolo da poker, assieme agli ayatollah, per ridiscutere di bombe atomiche. Nella speranza di non perdere anche l’osso del collo e di non essere lasciato in mutande. Come vedete, indizi di diplomazia sottotraccia ce ne sono a bizzeffe. Nel corso della telefonata, durata un quarto d’ora (for the record, ha chiamato la Casa Bianca, ma era tutto abbondantemente concordato), i toni sono stati “cordiali”. Il presidente americano, si tratta di un classico, ha cominciato la conversazione parlando di nodi non proprio cruciali, per poi affrontare il piatto forte, quello del nucleare. Dev’essere stata una conversazione incoraggiante, se ha spinto Obama a dirsi “sicuro” che una soluzione sarà trovata. Ma le sorprese non finiscono qua. Giovedì scorso, per la nuova serie “due cuori e una capanna”, si sono addirittura incontrati il Segretario di Stato, John Kerry e il Ministro iraniano degli Esteri Mohammad Javar Zarif. Kerry ha poi rivelato di essere rimasto profondamente colpito dai nuovi toni, più morbidi, della diplomazia di Teheran. Impressione condivisa anche dal vice-direttore generale dell’International Atomic Energy Agency (IAEA),  Herman Neckaerts. L’Agenzia, che dovrà fare il contropelo a tutti i movimenti tecnologici degli ayatollah, ha già annunciato che ci sarà un nuovo meeting alla fine di ottobre. Subito rimpallato, positivamente, dall’inviato di Rohuani, Reza Najafi, il quale si è spinto fino ad auspicare il raggiungimento di un’intesa “il più presto possibile”. Tutto rose e fiori, dunque, lungo la strada della pace, dell’armonia tra i popoli e via “blablablando” di questo passo? Calma e gesso. Secondo molti analisti occidentali, bisognerà vedere quanto “conta” Rohani nella geografia del potere degli ayatollah e fino a che punto la Guida Suprema, Alì Khamenei, il vero “boss” del regime, sarà disposto a spingersi sulla strada del dialogo. Per ora, la confusione (è un eufemismo) regna sovrana. Il New York Times ha significativamente descritto l’arrivo del presidente iraniano all’ONU, seguito da un codazzo di collaboratori, dove le giacche si mischiavano a turbanti e barracani, come una specie di scena madre. Ma lo show si è avuto all’aeroporto di Teheran, al ritorno. Gli oppositori “duri e puri” gli hanno tributato una letterale “ovazione”: nel senso che lo hanno preso a uova marce, oltre a tirargli addosso anche un paio di scarpe vecchie, per ricordargli che Ahmadinejad parlava con ben altro fiero cipiglio. Dopo cotanto ruvido “benvenuto” bisognerà aspettare e vedere se, uno di questi giorni, le uova che Rohani si è già beccato non si trasformeranno in pietre e randellate. Perché con Khamenei e con gli “hardliners” di Qom, la città santa persiana, si scherza poco. Il riformista Khatami, che faceva il galletto, è stato spennato vivo e messo a cuocere nelle patrie galere, mentre a “Squalo” Rafsanjani (un moderato? No, un opportunista…) hanno tolto la dentatura aguzza e poi lo hanno buttato nella vasca dei pesci rossi. Tanto per far capire chi comanda. Fuor di metafora, il punto interrogativo più grosso è quello di “inquadrare” l’evoluzione della faida tra gli ayatollah, che negli anni passati ha fatto girare a vuoto tutta la macchina diplomatica occidentale. Non a caso, in un discorso fatto una decina di giorni fa, la Guida Suprema ha ufficialmente annunciato l’adozione di una strategia che potremmo etichettare come, “Dottrina Khamenei” e che si può riassumere nella direttiva (letterale) di “flessibilità eroica in diplomazia”. Cioè: concedi il minimo e raccogli il massimo. Una dichiarazione che ha già fatto accendere tutte le lampadine rosse alla Casa Bianca e che ha indotto Obama a tendere la mano madida di sudori freddi, perché teme che gliela azzannino. Un’incertezza che la britannica BBC riassume lapidariamente affermando che la visita di Rohani a New York ha rivelato un uomo “costretto a fare i conti con le contraddizioni del suo lavoro”, dato che ha un mandato popolare senza un potere effettivo. Lui lo sa e, infatti, come un “mantra”, per essere preso sul serio dalla Casa Bianca, ripete continuamente di avere “il pieno sostegno della Guida Suprema”. Se è tutto vero lo sapremo presto. Il 15 e 16 ottobre, infatti, a Ginevra si riunirà il “pool” del “5+1” (Usa, Russia, Gran Bretagna, Francia, Cina e Germania) per un confronto con Teheran. Rohani ha detto “che l’Iran parteciperà senza porre alcuna precondizione”. Dal canto suo, Obama va più lontano, fino a ipotizzare un alleggerimento delle sanzioni in cambio di “azioni significative, verificabili e trasparenti” sul nucleare. Il clima, radicalmente mutato, è testimoniato dalle parole che i due si sono scambiati per telefono: “Le auguro una magnifica giornata”, ha esordito Rohani in inglese, poi rilanciato su Twitter. “Grazie, che Dio la custodisca” ha replicato, addirittura in farsi (persiano) Barack Obama. Conversando con la stampa, il presidente iraniano è sembrato disinvolto, arrivando anche a scherzare ( “davvero sono diverso da Ahmadinejad?”). Poi, ha aggiunto che le differenze sono quelle “che ha voluto il popolo iraniano”. Una piccola, ma significativa concessione l’ha fatta anche nei confronti della Casa Bianca: Sentendo il discorso del presidente Obama all'Onu – ha dichiarato - ho notato che l'atteggiamento dell'Occidente nei confronti dell'Iran è cambiato”. Certo, quando si scioglierà la neve, vedremo quanti fossi resteranno. Intanto, parlando all’Assemblea generale dell’ONU, il presidente persiano ha detto che la legge vale per tutti e che, se la comunità internazionale sta praticamente facendo le pulci, sull’affaire atomico, all’Iran, anche Israele deve decidersi a firmare il trattato di Non Proliferazione, “per un Medio Oriente veramente denuclearizzato”. Come “cadavere” lanciato sul sentiero delle buone intenzioni non c’è male. Infatti, a Gerusalemme montano le perplessità, per non dire altro. Lo stesso dicasi in tutto il Golfo Persico, dove, al di là delle dichiarazioni di facciata, Arabia Saudita ed Emirati sono già sull’orlo di una crisi di nervi, “puniti” per aver girato le spalle all’America durante il golpe egiziano. E poi, anche se a Washington pensano che Hassan Rohani possa essere un efficace (e comprensibile) ambasciatore per raggiungere un compromesso sul rompicapo nucleare di Teheran, bisogna vedere fino a dove potrà arrivare, prima che Khamenei gli leghi le mani. E i piedi. Scaraventando pure lui nella stessa vasca per i pesci rossi di cui sopra, dove già gira in tondo l’ex “Squalo” Rafsanjani.

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