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Obama manda a
casa 800mila
dipendenti pubblici


di Piero Orteca

Barack Obama manda a casa (temporaneamente si spera) 800 mila dipendenti pubblici, mentre un altro milione è costretto a lavorare gratis nell’attesa di essere saldato. No, non è il titolo di un “horror” di fantapolitica, ma è quanto si sta verificando in questi giorni in America, per colpa della situazione di scasso delle finanze federali. Fosse successo nel Bel Paese saremmo già tutti nascosti in cantina per la vergogna. La stampa internazionale, i governi “amici” (si fa per dire), le società di “rating” e i mercati (quelli “indirizzati” da una congrega di imbroglioni che giocano con tre mazzi di carte) ci avrebbero già fatti a fettine. E che dire delle autorità europee? Si sarebbero, di sicuro, mobilitate a palla per spedire a Roma il tribunale della Santa inquisizione (finanziaria), flagelli in mano. Quelle stesse autorità, sia detto per inciso, che consentono ai figli della gallina bianca, come i francesi, di sforare il rapporto deficit-Pil (-4,2%) senza tanti rimproveri, mentre all’Italietta, per un più che misero 0,1% (-3,1%), distribuiscono botte da orbi. Invece, il tracollo del debito pubblico si è verificato negli Stati Uniti, come ampiamente annunciato da mesi (se non da anni). E le reazioni internazionali sono state, sì, preoccupate, ma tutto sommato un po’, come dire, tiepidine. Certo, la vulgata popolare proclama che “il re non fa corna”. Quindi, se a fare carne di porco dei sacri principi delle virtù contabili sono gli Stati Uniti, beh, si può chiudere un occhio. Anzi, vista la tragedia dei numeri federali, in rosso vivo e lampeggianti, gli occhi vanno chiusi entrambi, per non restare abbagliati dai debiti, che negli Usa hanno raggiunto dimensioni alla Zio Paperone. Fantastilioni? No, ma trilioni di dollari (quasi 18, per l’esattezza e sull’unghia) quelli sì. Allora, cosa è successo, esattamente, a Washington? Le leggi di bilancio Usa (alquanto bizantine per la verità) impongono al Presidente e al Governo federale di rispettare i paletti che impediscono di “sforare”. L’unico modo per metterci una pezza è quella di ottenere un’autorizzazione speciale e provvisoria del Congresso, per poi alzare, successivamente, il “tetto del debito”.  Cioè firmare altre “farfalle” (cambiali a go-go, tanto per capirci) necessarie a fare andare avanti la pesantissima macchina statale. Se Camera e Senato si mettono d’accordo, il Presidente respira, ottiene “credito” e si tira a campare come prima (cioè, il chiodo se lo becca chi arriverà al potere dopo), se no bisogna abbassare le saracinesche, perché non ci sono soldi. Questo secondo scenario si chiama “shutdown” (che può essere tradotto con chiusura, blocco dell’attività) ed è quello che sta succedendo, per ora, nel Paese più potente del mondo, dato che i repubblicani hanno lasciato il Presidente in mutande, negando il loro sostegno. Senza denari a disposizione, Obama è stato obbligato a sigillare il salvadanaio e a dare colpi di forbici a destra e a manca. Qualche esempio? Sono stati rispediti a casa (temporaneamente) centinaia di migliaia di dipendenti pubblici, che per ora non beccano un centesimo. Almeno 400 mila sono quelli del Dipartimento della Difesa. Poi ci sono coloro che lavorano al Ministero del Commercio (40 mila), a quello dei Trasporti (quasi 20 mila), all’Energia (13 mila) nei parchi nazionali, negli zoo, in diverse Agenzie e in molti musei federali. In totale, hanno perso momentaneamente il posto 800 mila persone. “Salvati”, per ovvi motivi, i controllori del traffico aereo, gli addetti alla Sicurezza Nazionale e i dipendenti delle centrali nucleari. Più in dettaglio, lo “shutdown” riguarda alcuni luoghi-simbolo degli Stati Uniti. La Statua della Libertà a Liberty Island, gestita dal National Park Service, è stata chiusa al pubblico. Così come 401 parchi nazionali,  compresi Yellowstone, Yosemite e il Grand Canyon. Mala tempora currunt anche alla Casa Bianca, che funziona “a basso regime” e al Campidoglio, dove sono stati sospesi i giri turistici. Stesse scene ai “memorial” dedicati a Lincoln, Martin Luther King e Franklin Delano Roosevelt, a Washington, dove sono rimaste a secco ben 45 fontane. Persino la Nasa, l'agenzia spaziale americana, è dovuta tornare sulla terra: il 97% dei suoi impiegati sono rimasti senza stipendio. Insomma, questa volta a Obama il miracolo non è proprio riuscito. Due anni fa, con una straordinaria capriola, era uscito tutto intero da sotto un treno in corsa, siglando l’accordo un’ora prima del diluvio universale. La situazione non era così drammatica per come appariva a una prima occhiata. Gli Stati Uniti non rischiavano di fare la fine, carognesca, di qualche Paese sudamericano, dove la valuta viene stampata fino a quando dura l’inchiostro, anche perché altre volte, in passato, la Casa Bianca aveva dovuto subire l’onta dell’ufficiale giudiziario, scansando sempre i pignoramenti. Il problema vero era semmai politico: il presidente, in vista delle elezioni per il secondo mandato, aveva stretto un patto con gli avversari repubblicani. Viveva la fase più delicata del suo primo mandato. Aveva appena annunciato l’intenzione di ricandidarsi, mentre nuvoloni neri come la pece si addensavano all’orizzonte e andavano a complicare le aspettative di supporter, intellettuali “à la page” e romantici compaesani, che speravano ancora di realizzare, con lui, il mito della “nuova frontiera” che fu di John Kennedy. Oggi è diverso. Ottenuta la sua rielezione, il presidente tiene duro e sfida l’opposizione, che alla Camera è maggioranza.  Ha annullato il viaggio in Malesia e nelle Filippine e sta valutando se confermare o meno le altre due tappe in Asia. In ballo ci sono i summit previsti in Indonesia e Brunei. “Bisogna mettere fine a uno shutdown dannoso e incauto – dice il presidente - è necessario approvare un budget che finanzi il governo”. E poi chiede ai repubblicani di non tenere in ostaggio la democrazia e l’economia, facendo intravedere, dietro lo “shutdown” del governo il rischio di un vero e proprio “default” (inadempienza, in pratica fallimento) degli Sati Uniti. Parole forti, che hanno l’obiettivo di puntare al muro dell’accampamento nemico che, dietro una facciata di solidità, potrebbe sgretolarsi. Lo sostiene Anthony Zurcker della BBC, il quale punta il dito sulle differenze strategiche tra “repubblicani di città” e “repubblicani di campagna”. Differenze in cui cerca di incunearsi Obama per sparigliare le carte e sottrarsi a un baratto che giudica inaccettabile: quello di salvare il bilancio affossando, però, la riforma sanitaria. Uno dei cardini del suo programma elettorale. Un altro delicato versante delle conseguenze potenziali dello “shutdown” è quello della politica estera. Il Segretario di Stato, John Kerry, ha snocciolato i pericoli immediati per la diplomazia Usa, dagli aiuti a Israele fino all’incapacità di monitorare e applicare efficacemente le sanzioni all’Iran. Certo, aggiunge Kerry, se il blocco dovesse prolungarsi nel tempo, la credibilità internazionale degli Stati Uniti andrebbe a farsi benedire. E Obama, cercando di scaricare sulle spalle dei repubblicani la paralisi dei servizi federali, aggiunge “che non si farà ricattare”. Ma deve stare attento. Gli indici della sua popolarità sono in ribasso. E di molto. Il “job approval” è poco lusinghiero. I principali istituti di sondaggio fotografano una situazione chiara, in cui i contrari alla politica presidenziale sono decisamente in maggioranza, da Rasmussen (+7), a Reuters/Ipsos (+10), fino a Gallup (+11). L’ultima dichiarazione di Kerry sull’argomento, poi, sembra proprio frutto di un valzer ballato sulla saponata. Nell’ansia di mostrarsi sicuro e, forse, di non lasciare l’America “sotto tiro” (anche dei mercati) si è fatto scappare una frase di quelle storiche (e incomprensibili): “Lo shutdown del governo federale – ha detto - è un segnale forte della robustezza della nostra democrazia”. Per la serie “quando la pezza è peggio del buco”

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