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Tutti i dettagli del
piano segreto Usa-Iran


di Piero Orteca

Sotto l’albero di Natale della Casa Bianca Barack Obama potrebbe far trovare, ai suoi compatrioti (e al resto del pianeta), un pacco-dono di quelli luccicanti: l’accordo definitivo sul nucleare con gli agguerriti ayatollah iraniani. Una mossa che chiarirebbe, definitivamente e senza i “se” e i “ma”, agli scettici e ai perbenisti in servizio permanente effettivo, il senso e i risvolti del giro di valzer sulla Siria. Dove si è passati, in un paio di giorni, dai missili pronti a partire sulla capa di Assad a un’atmosfera che, poco ci manca, potrebbe essere definita da tarallucci e vino. Messi nella pattumiera delle coscienze i 110 mila morti finora causati dalla guerra civile e le immani sofferenze patite dalla popolazione, (a cominciare dai bambini, costretti a mangiarsi cani e gatti per placare la fame) le Cancellerie occidentali sono tutte concentrate sulla rogna più grossa, quella delle (costruende) bombe atomiche di Teheran. Abbiamo già detto, da lunga pezza, che sullo sfondo della tragedia siriana, la partita più grossa si giocava nel triangolo Usa-Russia-Iran e comprendeva l’intesa sul progetto nucleare persiano, il riconoscimento del ruolo di “potenza regionale” del Paese degli ayatollah e il contenimento di quello che, adesso, in America, viene identificato come il pericolo pubblico numero uno. E cioè il terrorismo sunnita, legato mani e piedi alla casa-madre di al Qaida. Obama ha pazientemente tessuto la sua tela dietro le quinte, lavorando sotto traccia, con pochi intimi, anche a costo di essere preso per idiota. Anzi, durante i giorni di fuoco di fine agosto, quando si aspettava la rappresaglia anti- Assad, viste le sue (apparentemente) incomprensibili esitazioni, la stampa Usa aveva paragonato lui e Kerry, il Segretario di Stato, a Stanlio e Ollio. Oggi, alla luce delle ultime “soffiate” diplomatiche, forse la strategia del presidente dev’essere rivalutata. La notizia “fresca” arriva dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, che, incontrando John Kerry (hanno “parlato” animatamente per oltre sette ore, tanto per capirci) ha dovuto ingoiare il rospo: Obama ha ordinato di chiudere l’accordo con la teocrazia iraniana, mediato dai russi, entro il 24 dicembre. Costi quel che costi. Una strategia che a Gerusalemme proprio non digeriscono e che, anzi, i servizi segreti da quelle parti tacciano come “flip-flop”, “un colpo al cerchio e uno alla botte”, e che il Signore ce la mandi buona. Gli israeliani sono inviperiti, per usare un eufemismo, così come i sauditi, gli egiziani “golpisti” e i vari emiri del Golfo. Questo inedito asse ha i sudori freddi, di fronte a un Iran (sciita) nucleare. di cui nessuno si fida. Ora, siamo in grado di fornirvi alcuni particolari che dovevano restare “classificati” e che invece (forse ad arte) cominciano a circolare nel chiuso degli ambienti diplomatici e di qualche “think-tank”. In sostanza, il polpettone impastato a quattro mani da Putin e Obama, è stato condito e servito su un piatto d’argento da uno chef d’eccezione, Sergei Kiryenko, capo dell’agenzia atomica di Mosca. Hassan Rohani, nuovo presidente iraniano l’ha trovato di suo gusto, ma, soprattutto, ha espresso il suo gradimento la Guida Suprema, l’ayatollah Alì Khamenei. Almeno così pare, perché, detto a chiare lettere, lo scoglio principale è proprio lui. Se ne riparlerà il 7 novembre, quando Obama cercherà di limare quei dettagli che ancora non lo convincono. Da quello che trapela, l’accordo dovrebbe concedere agli ayatollah di continuare ad arricchire uranio al 5% (per uso civile), mentre imporrebbe lo stop alle centrifughe che sfornano materiale fissile al 20%. Via libera, inoltre, al reattore al plutonio di Arak e disco rosso, invece, per l’impianto di Fordo, che verrà riconvertito in laboratorio di ricerca. Di pari passo sarà allentato il nodo scorsoio delle sanzioni, che stanno strangolando l’economia di Teheran e verranno “scongelati” 50 miliardi di dollari in “asset” finanziari seppelliti nelle banche Usa. Fonti dell’Intelligence israeliana, inoltre, hanno rivelato che le intese sotto banco prevedono un “tetto” alla quantità di uranio trattato al 5% e l’adesione ufficiale dell’Iran ai protocolli addizionali previsti dal Trattato di non proliferazione, a cominciare da un’accettazione non condizionata alle ispezioni. Gli specialisti di Gerusalemme, comunque, sentono puzza di bruciato. Temono l’esistenza di clausole ultrasegrete, che potrebbero allargare le concessioni già accordate agli ayatollah e mettono in guardia l’America: nessuno si sogni di ammorbidire le sanzioni economiche prima che Rohani abbia messo la sua firma su tutte le carte e abbia tolto di mezzo le centrifughe incriminate (quelle che arricchiscono al 20%). Netanyahu non l’ha detto, ma l’ha fatto capire. Senza garanzie minime, gli israeliani potrebbero far saltare il banco degli accordi in qualsiasi momento, inventandosi un “blitz” militare rovinosissimo. E a Gerusalemme mettono i puntini sulle “i”. Gli iraniani non devono avere alcun barlume di “capacità nucleare bellica” e per questo non devono possedere impianti di acqua pesante per la produzione di plutonio, ingrediente principale delle bombe atomiche. Inoltre, gli impianti sotterranei vanno smantellati e va immediatamente organizzato un censimento del materiale fissile finora accumulato. Certo, non si può dare poi loro tanto torto. A ripercorrere a ritroso la strategia americana in Medio Oriente c’è da farsi venire i capogiri: apparentemente ha la stessa linearità di una rotta tracciata da un timoniere in preda ai fumi dell’alcol. Solo un anno fa si parlava di assestare una bella legnata sui turbanti degli ayatollah, uno scenario disegnato apposta per blindare la rielezione di Obama, grazie anche ai voti della lobby ebraica. Tutto questo mentre Sir John Sawers, capo del branch MI6 dei servizi di intelligence inglesi, annunciava che l’Iran avrebbe avuto la sua bomba atomica “al massimo entro un anno e mezzo”. Era l’epoca del massiccio “bild-up” di forze aeronavali e terrestri intorno al Golfo Persico e, principalmente, nei pressi dello Stretto di Hormuz, che gli ayatollah minacciavano di sbarrare col catenaccio. Da questo collo di bottiglia passa tra il 20 e il 25% del petrolio mondiale, una quota che, sottratta al mercato, a cascata potrebbe far schizzare in alto i prezzi della benzina e dell’olio combustibile per le centrali termoelettriche. Non a caso, il Parlamento iraniano era arrivato al punto di discutere la possibile chiusura militare Hormuz per rispondere alle sanzioni dell’Unione Europea e a quelle americane. A quei tempi Obama aveva disposto il posizionamento nell’area di ben quattro portaerei: la Stennis, la Lincoln, la Eisenhower e l’Enterprise. Una quinta “air carrier”, la francese Charles de Gaulle, si era unita agli americani, mentre in zona erano arrivati 8 cacciamine, la piattaforma Ponce, utilizzata come base per gli elicotteri e le forze speciali e una squadra di mini- sottomarini telecomandati. Attorno alle tre isolette poste all’imboccatura del Golfo Persico, Bu Musa, Grande e Piccola Tunbs, infine, si erano ammassate truppe Usa. Oggi il quadro è radicalmente cambiato. Obama non sembra oltremodo impressionato dalle paturnie israeliane, mentre guarda con più attenzione alle mosse dei sauditi, che si dimostrano letteralmente imbufaliti per la politica di “appeasement” degli Stati Uniti (ma loro la chiamano in modo un tantino più volgare) verso l’odiato e atavico nemico persiano-sciita. Ma la notizia che ha fatto rizzare il pelo a tutti, è quella relativa all’ordine impartito da Netanyahu ai suoi generali, e cioè di mettere a punto i piani d’attacco contro i reattori nucleari degli ayatollah. Sarebbe come addobbare l’albero di Natale, ai cui piedi Obama spera di incartare il suo regalo di pace, illuminandolo con tanti candelotti di dinamite.

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