di Anna Mallamo
I siciliani, a volte, scrivono di storia. Fingono di scrivere romanzi, novelle, narrazioni, ma sotto l’arabesco s’indovina il teorema, nell’abbandono lirico si svela il severo documento, e l’invenzione prende sempre il volto della testimonianza. Difficile, a volte, distinguere le due cose, che incredibilmente si sostengono l’un l’altra. Il vasto mare del non-raccontato, dell’immemore – che in una terra come la Sicilia, coi suoi vinti e oppressi a costituirne, secolo dopo secolo, l’humus profondo, genera una pressione immensa – chiede di farsi parola, racconto, verità affermata. Questa, da sempre, è la cifra di Maria Attanasio, poetessa e scrittrice che, come gli artigiani e artefici della sua terra, dalla terra trae ininterrottamente l’argilla densa della Storia, e la lavora e la forgia in altre forme, dipingendola poi con la policromia squillante degli smalti, o a volte lasciandola “crita” e scabra, ruvida come l’ombra dei calanchi della sua Caltagirone.
Il suo capolavoro indiscusso, “Il falsario di Caltagirone” (Sellerio, 2007), con il quale vinse il Premio Vittorini, è opera fina di questo genere: documento che si fa romanzo, storia vissuta (quella di Paolo Ciulla, falsario Robin Hood anarchico e rivoluzionario) che s’invera vieppiù nella narrazione, nella speciale verità dell’arte, «la menzogna che ci permette di conoscere la verità, almeno la verità concepibile», come diceva uno specialista di verità inconcepibili, Pablo Picasso (che del “Falsario” è addirittura uno dei personaggi).
L’ardimentosa Maria va ancora oltre, e, con la consueta acribia della storica e passione della narratrice, invece del passato stavolta ci racconta il futuro. Un futuro che, guardatevi indietro con attenzione, è già cominciato. È qui.
“Il condominio di Via della Notte” (Sellerio, pp. 196, euro 14) si dovrebbe catalogare come “romanzo distopico”, laddove distopia è il contrario esatto dell’utopia, ovvero la speranza quando diventa estremista: «Il bisogno di utopia: quel persistente luccicare di smalti e di bellezza pur in mezzo al mare tempestoso della storia» scrive Maria Attanasio in un altro piccolo, prezioso libretto, “Della città d’argilla” (Mesogea, collana “La micro”, pp. 92, euro 6), che raccoglie brevi scritti che sono altrettante chiavi, passaporti, vademecum per percorrere le opere dell’autrice.
Distopico è il mondo quando viene privato della speranza, dove l'umanità è schiacciata, perseguitata, annichilita da regimi totalitari e prigionie di massa: un mondo che non è poi così ipotetico e lontano, e che non poche popolazioni hanno sperimentato, in varie fasi della storia.
Distopico è il mondo di Nordìa, metropoli fagocitante che ha sostituito alla democrazia il mercato, alla tolleranza le porte blindate, alla conoscenza il controllo. Ma tutto questo non è accaduto con un colpo di Stato e in modo repentino, bensì nel modo più subdolo: poco a poco, legge su legge, divieto su divieto. Spostando sempre un po’ più in là l’asticella dell’intollerabile, dell’inaccettabile. Mitridatizzando accuratamente i cittadini, che s’abituano dapprima a una democrazia “sotto tutela” e infine non s’accorgono che essa è evaporata, sparita, estinta (un rischio che riguarda qualsiasi regime democratico, si badi bene: una democrazia non è garantita da alcuna Costituzione o sistema di regole, ma solo dalla manutenzione, civile culturale e sociale, della Costituzione medesima e dei suoi principi, delle regole e della loro corretta applicazione: noi italiani, proprio oggi e qui, lo sappiamo benissimo...).
La metropoli-stato di Nordìa (che prima si chiamava Leviana, ma ha spazzato via dal nome – che è sempre conseguenza della cosa – ogni levità possibile) è basata su una rigida distinzione tra dentro e fuori, tra inluogo e fuoriluogo, come vengono chiamati clandestini o anche solo forestieri, o semplici (semplici?) portatori di differenza, divergenza, alterità. A Nordìa «l’homo oeconomicus è misura di tutte le cose», il sistema di debiti e crediti regola ogni aspetto della vita, in una sorta di capitalismo diffuso e pervasivo, di mercato assoluto cui sono ispirate istituzioni, organizzazioni sociali, identità: come se al suo sorvegliatissimo ingresso ci fosse un arco di metallo, con scritto, poniamo: «Il mercato rende liberi». Quale poi sia quella specie di libertà, lo vediamo nella vicenda – che mi guardo bene dal raccontarvi – di Mauro Testa e Rita Massa (e torna quel vizio dei nomi, di “parlare” ancor più dei personaggi), lui fuggitivo proprio all'inizio del sistema Nordìa, di cui avverte sulla pelle la crescente, capziosa oppressione, lei sprofondata nel rassicurante «non è niente, non succede niente di male» con cui, nella storia, milioni di persone hanno nascosto a se stesse l’evidenza d’un regime e d’una schiavitù incipienti.
La Nordìa immaginata da Maria Attanasio mette assieme Orwell e Calvino, “1984” e “Le città invisibili”: dell’uno ha la cupezza, la portata distopica, la neolingua, le “non-persone”, la gemellata vicenda d’una presa di coscienza troppo debole per sovvertire il sistema e che si volgerebbe in sconfitta totale, se non ci mostrasse comunque la potenza di un pur singolo, sconfitto “no”; dell’altro ha i nomi parlanti, la geometria, l’evocazione di molteplici “città del desiderio” divenute prigioni (come Zobeide, la “città invisibile” che viene citata dalla stessa Autrice in premessa: la città nata da un sogno ma edificata in forma di trappola), di “città ingiuste” che s’avvicendano alle “città giuste”.
Ma perché – ci chiediamo – una storica scrive un romanzo storico del futuro, e di qualità disperantemente distopica, tessendo distorsioni ampiamente evidenti nel nostro presente (la dittatura finanziaria globale, la tragedia delle migrazioni, il fiorire delle xenofobie, la pervasiva “sondocrazia” che sostituisce il sondaggio al voto, lo spot all’idea, lo slogan al pensiero, il reality alla realtà)? Perché Maria Attanasio da Caltagirone interpone questo strano libro alla sua paziente costruzione delle voci di chi non ha voce, sottraendosi alla «deriva che risale dai carruggi, dalle chiese, dai palazzi» della sua Sicilia? Per lo stesso motivo di sempre. Per rispondere allo stesso appello di sempre: forgiare – nell’argilla viva ma antica e terrestre della parola – il “no” necessario, la chiave, lo spiraglio. Per consentirci – come possono fare solo gli artisti, d’argilla o di parola o d’altro – di uscire dall’ «invalicabilità di un effimero presente» in cui «la storia sembra risolversi nella simultaneità della cronaca», producendo smemoratezza, accettazione, omologazione. Producendo germi di Nordìa. Infine, per portare avanti incessantemente – missione artistica e politica assieme – le ragioni dell’utopia, della bellezza, della resistenza umana.
Gli artisti, le letterature ci servono a non diventare Nordìa. Mai.