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Crisi, l’Europa si muove
lenta e in ordine sparso


di Piero Orteca

Parliamoci chiaro, l’economia ha un grande svantaggio rispetto alla politica: è fatta di numeri e non di chiacchiere. Il che significa prestare il fianco a osservazioni, critiche e sbertucciamenti subito verificabili. Senza giri di valzer. Nel secondo caso, invece, ognuno è libero di parare in piedi tutti i sacchi vuoti che vuole, dato che le verifiche le faranno i posteri. A loro spese e pagando debiti e interessi. Premessa, quella fatta oggi, indispensabile per far capire a tutti che, quando si parla di economia, anzi, di crisi finanziaria del Vecchio Continente, c’è poco spazio di manovra per le vestali dell’europeismo acritico. Contano solo i fatti. E i fatti dicono che l’Europa, economicamente parlando, è ancora in mezzo a una strada. Tanto è vero che il presidente della BCE, Banca Centrale Europea, Draghi (“Supermario”, come lo chiamano in America, con una certa ammirazione, per le sue feroci battaglie con i “controllori” di Berlino) è riuscito, guarda tu!, dopo aver dato una sbirciatina di sguincio agli indicatori statistici, ad abbassare i tassi (fino allo 0,25%). Chiudendo, in pratica, quando i buoi erano ormai scappati, le porte della stalla. Perché il Giappone, sull’orlo della super-recessione (con tanto di deflazione), c’era arrivato molto prima di noi a questa mossa, e gli statunitensi della Federal Reserve, l’h a nno già cotta, mangiata e digerita da diversi anni. Insomma, come tempestività siamo alla stregua di un bradipo che debba attraversare un’autostrada. Abbiamo molte possibilità di essere asfaltati da un Tir a tre rimorchi. Però, dobbiamo sottolineare che non è di sicuro colpa di Supermario. Lui deve sempre chiedere permesso (indirettamente, è chiaro) alla Bundesbank, di cui, come spiegheremo dopo, la BCE rappresenta una specie di filiale, da telecomandare a seconda delle circostanze. Certo, l’e l e t t r o e n c e f a l ogramma dell’Europa segna qualche picco di vitalità. Ma, credeteci, la maggior parte del tracciato è avvilente e, in diversi punti, resta piatto, anche se provate a smuoverlo a martellate. Le cause partono da lontano e hanno molto a che vedere con la costruzione di un’Unione incollata con lo scotch, dove, alla prima scossa tellurica, i muri portanti si sono incrinati e i calcinacci hanno cominciano a piovere da tutte le parti. Insomma, ognuno tira per il suo e se ne frega alla grandissima di chi resta indietro. Altro che “s o l idarietà” sovranazionale! Un esempio? Prendiamo proprio la BCE (la lingua batte dove il dente duole) istituzione nella quale, come abbiamo già sottolineato, al di là dei predicozzi di facciata, comandano i tedeschi. Il discorso è vecchio risale, addirittura, al Primo conflitto mondiale, quando Berlino, dopo la rovinosa sconfitta, venne costretta a pagare le riparazioni di guerra. Risultato: fame nera, inflazione a dodici zeri e sete di vendetta contro i vincitori e i presunti complici. La Repubblica di Weimar venne così travolta dalla crisi economica, aprendo la strada all’i m b i a nchino coi baffetti, che ci ricamò sopra, piantando la bandiera di un nazionalismo da manicomio sulle macerie della transitoria democrazia germanica, demolita dalla miseria e dalla disoccupazione. Insomma, per non farla tanto lunga, da allora uno spettro agita i sonni di ogni buon tedesco: l’inflazione. E la crescita? Niente da fare, da quest’orecchio non ci sentono. La filosofia, per così dire “c a l c istica”, in voga dalla Baviera alla Pomerania è “primo, non prenderle”. Che, tradotto papale papale dopo cotanta metafora, significa una sola cosa: difesa del cambio. I tedeschi hanno rinunciato alla loro valuta nazionale, il marco, a malincuore, ma hanno schierato le panzerdivisionen finanziarie e le loro sturmtruppen bancarie nelle istituzioni che contano, proprio a cominciare dalla BCE. Leggere, prego, statuto, organizzazione e finalità del carrozzone trapiantato a Francoforte (e ti pareva!), guidato da Draghi. Al quale i “vaqueros” che amministrano le prospere “f a z e ndas” di Frau Merkel, detto per inciso, stanno facendo vedere i sorci verdi con la coda paglina. “Sì - diranno, all’unisono, il tabaccaio all’angolo, il fruttivendolo, il pensionato e qualche milione di disoccupati – ma perché la racconta giusto a noi? Che c’entriamo?” Purtroppo c’entriamo. Fino al collo. Se facciamo il Giochino dell’oca, dadi e paperella, per vincere un posto di lavoro, vediamo che per ogni casella fatta in avanti saremo costretti a farne due all’indietro. Come mai? Semplice, le strategie finanziarie dell’Europa sono “ingessate” dalle paure tedesche e dagli interessi di un universo bancario nelle cui giungle si annidano molti biscazzieri senza scrupoli. Il problema vero, che fino a qualche tempo fa veniva disinvoltamente ignorato dai “Premi Nobel” (si fa per dire) che dettano i ritmi e le strategie economiche dell’Unione, non era tanto inseguire la “crescita” (che, per molto tempo, in Europa, è esistita solo nel Paese dove gli asini volano) ma arrestare realmente e non solo con trucchi contabili, la “decrescita”, cioè le flessioni della ricchezza (Prodotto interno lordo) e le emorragie di posti di lavoro. Per capirci, si tratta di due scenari che richiedono terapie simili, ma con dosaggi alquanto diversi. Di fronte a un raffreddore (stimolo alla crescita) te la puoi cavare con qualche aspirina, ma se devi curare una bronco-polmonite galoppante (crollo del Pil e dell’o ccupazione) sei costretto a somministrare l’antibiotico con gli aghi del materassaio. Bene, la BCE, dominata dai bollenti spiriti teutonici anti- inflazione, ha tenuto, colpevolmente, i tassi d’interessi troppo alti per lunga pezza, contribuendo ad amplificare i contraccolpi della crisi e a tagliare le gambe a qualsiasi politica espansiva. E quando ha allargato i cordoni della borsa (con i denari dei contribuenti) ha solo beneficato i furboni che prosperano dentro banche e bancarelle, che si sono pappati la strenna in arrivo dalla Befana di Francoforte, comprando a palla Titoli del debito pubblico e lucrando, senza sporcarsi un mignolo, sugli ampi differenziali d’interesse. Questo lo sanno bene tanti artigiani, piccoli imprenditori e semplici operatori commerciali che, in molti angoli d’Europa, specie nel Mediterraneo, si sono visti sbattere la saracinesca dello sportello bancario sulle dita. Anche dopo la domanda di piccole somme, per poter tirare avanti, i “niet” sono arrivati come tanti colpi di frusta. O, in subordine, ai richiedenti, trattati come fastidiosi questuanti, è stato fatto stirare il collo quanto quello di uno struzzo. Lunghe attese, clausole quasi vessatorie, obbligo di fornire garanzie cervellotiche e protocolli da azzeccagarbugli. Un cocktail micidiale (preparato, bisogna dirlo con onestà, non da tutti gli istituti di credito) che ha finito per sfiancare i potenziali investitori e li ha demotivati. Costringendo molti a chiudere bottega. E così arriviamo all’epilogo. In molti romanzi gialli l’assassino è quasi sempre il maggiordomo. Che nel caso della catastrofe economica europea è senza alcun dubbio l’economia “di carta”: speculazioni, “bolle” edilizie, debiti pubblici scaricati sulle spalle dei fessi di turno e banche, bancone e bancarelle che giocano a poker con i quattrini dei risparmiatori. Basterà, ora, lo 0,25% di Supermario a far ripartire l’Europa, cioè una betoniera che ha i copertoni lisci e la batteria scarica? Lo sperano soprattutto quei disoccupati (26,2% in Spagna, 27,6% in Grecia, 12,2% in Italia) che pagano il prezzo più salato della “finanza creativa” e che finora sono stati imboniti a chiacchiere.

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