Cos’è mancato, alla sinistra, in quest’ultimo miliardo di anni? Perché è così estranea ai cromosomi, alle chimiche, ai sentimenti della maggioranza degli italiani? Proviamo a sintetizzare un capo d’imputazione: la sinistra soffre d’un imperdonabile morbo, è astratta. Parla con convinzione d’uguaglianza, coltiva universalistiche speranze, ma spesso perde di vista la determinatezza dei problemi e la necessaria concretezza che dovrebbe permeare una credibile risposta politica, specie in un mondo affamato e inaridito come il nostro – sfiancato dalla crisi, ostaggio delle tecnologie, narcotizzato da un consumismo mutilato ma egualmente capace, ancora, di dettare distruttive agende da fine impero –. La sinistra è sempre rimasta fedele a una filosofia della Storia cui può essere immolata ogni urgenza che attenda una rapida, se pur provvisoria, soluzione.
Eccolo, il paradosso: la sinistra analizza lucidamente disfunzioni e ritardi, diseguaglianze e cancri, ma quasi mai ciò si trasforma in un antidoto di rapida efficacia. Prevale l’ostinazione, nobile e sterile: inseguire la Norma che redima il Pianeta da ogni peccato, sanare il Male e istituire un definitivo solido giusto equilibrio. Missione encomiabile ma impossibile.
Insomma, anche se in apparenza ciò contraddice consolidatissimi luoghi comuni, è la sinistra che continua a ritenere possibili ordine e stabilità. Mentre invece per certa destra, nonostante sbandieri il vessillo cattura-consensi dell’Ordine e di una non meglio precisata Tradizione, è politicamente costitutivo il “caos”. La perpetua insidia che viene dal futuro, l’inaffidabilità d’ogni domani, l’oggettività di ogni sfavorevole imprevisto – che andrà ammansito e domato (in Italia è un esercizio ormai giornaliero di propaganda) – costituiscono l’humus ideale per qualsiasi destra in doppiopetto e molle. La “politica del fare”, di cui questa destra è portatrice, non ha dietro alcuna premessa ontologica, è soltanto la presa d’atto del disordine del mondo e delle “necessità” della politica.
Matteo Renzi, in questo scenario, può apparire come il nuovo uomo della Provvidenza. Il suo sobrio realismo, il suo “voler fare da sinistra” si sposa meravigliosamente a un’emergenza storica specifica: siamo devastati e minacciati, impoveriti e indifesi, sfiduciati e senza più un credo. E qui, guardando appunto a Renzi e alla diffidenza con cui l’osserva la sinistra italiana, s’arriva al liberalismo, dottrina che – già nella matrice razionalistico-moderna, a partire da Locke, già nel progetto cavouriano – pone al centro della politica la soggettività e i suoi diritti, “slogan” che – se rimane generico – può esser venduto tanto a sinistra quanto a destra.
Tutto ciò non deve far paura. Il perdurante orizzonte di crisi – del sistema capitalistico, dell’Europa e dell’euro – può rappresentare un’occasione: l’implosione economico-finanziaria sta già modificando geneticamente le “identità” politiche, e forse – innanzi alla graduale contaminazione tra Stato, mercato, partiti e movimenti – sarà possibile rispondere rilanciando l’accantonato “modello sociale” europeo, basato su una rifondata “civiltà del lavoro”. Renzi, aspirante premier, riuscirà a indicare una via nuova alla sinistra e a convincere parte del centrodestra soltanto se mostrerà – questo, per Dna, non dovrebbe risultargli difficile – di non mirare a un restyling del modello statalistico socialdemocratico; al contempo – compito più difficile – dovrà portare avanti coraggiose politiche (anche fiscali) che creino realmente lavoro, prodigarsi per il riallineamento di salari e profitti, fare la sua parte (la parte dell’Italia) nella lotta alla sfrenata finanziarizzazione dell’economia.
L’elettorato moderato di centrodestra, dopo la non proficua scorpacciata “tecnica” degli ultimi tempi e le larghe intese della stagione Letta – ieri rilanciato dalla nuova fiducia –, sarà fortemente tentato dal dargli ascolto; il grosso dell’elettorato di centrosinistra gli rinnoverà il consenso elargito alle primarie del Pd.
Renzi farebbe un grave errore, però, a non parlare alla sinistra, a non immaginare e rendere possibili punti di contatto e scambio – certo non potrà mai esserci “sinergia” sistematica – tra partito e movimenti. Il suo “fare” – lungi da ogni astrattismo – dovrà tenere al centro il lavoro. Quel che la sinistra chiede, e ha tutte le ragioni, è un luogo vero dove riscoprire il concreto.
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