Che la “globalizzazione” fosse un mezzo manicomio l’avevamo già capito da un pezzo. Ma se proviamo a trasferirci dal terreno dell’economia, dove almeno i numeri, in qualche modo, rispecchiano i fatti, a quello delle relazioni internazionali, regno delle chiacchiere a ruota libera (e spesso a vanvera), allora non c’è camicia di forza che tenga. Tutto quello che valeva il giorno prima, oggi non conta più. E domani? Si accettano puntate. Nel senso che anche il grande Nostradamus, terribile (ma in diversi casi molto credibile) profeta di sventure, nel bailamme in cui è precipitato il pianeta attuale, probabilmente non riuscirebbe ad azzeccare manco un ambo sulla ruota di Palermo. Insomma, viviamo tempi complicati, in cui l’incertezza domina sovrana e nei quali, specie in politica estera, le sorprese sono sempre piazzate dietro l’angolo. Pigliamo la Siria. Fino a tre mesi fa Obama aveva promesso di fare carne di porco. Minacce di sguincio rivolte al presidente-dittatore Assad, missili sulle rampe di lancio, truppe pronte a scatenare il finimondo partendo dalla Giordania, rapporti eccellenti con i ribelli sunniti, schermaglie diplomatiche con Putin e, last but not least, giochi di “quasi-guerra” con gli ayatollah iraniani. Poi è successo qualcosa. Se a Isacco Newton, leggendario fisico e matematico, illustre scopritore della gravità, si dice che sia caduta una mela in testa a illuminargli le cervici, a Obama, vista la spettacolare “invenzione” diplomatica che ha tirato fuori dal cilindro, dev’essergli piombato sulla capa, quantomeno, un cocomero di quelli extralarge. Ora il presidente è più tranquillo ed ha anche trovato il tempo per rivisitare “casa”, alle Hawaii. Ma allora, il venerdì prima dell’attacco programmato contro la Siria, il mondo fremeva, i pacifisti marciavano in tutte le direzioni e Obama passeggiava nervosamente nei giardini della Casa Bianca. Il suo istinto gli diceva che la cosca “guerrafondaia” dei suoi adviser, che già lo aveva inguaiato in Egitto e in Libia, al tempo della Primavera araba, stava per fare nuovi danni. Così ha cercato altre strade per allungare il brodo, dando a tutti l’impressione di essere diventato un comandante con la spina dorsale di plastilina. È stato il prezzo, salato e bruciante, che ha dovuto pagare al suo disegno di rimettere le cose a posto senza sparare un colpo, coinvolgendo, in quella specie di polpettone diplomatico, anche i suoi collaboratori. Un esempio per tutti? Il Wall Street Journal, dove presidente e Segretario di Stato sono stati paragonati a Stan Laurel e Oliver Hardy, con l’avvertenza che, vista la situazione tragicomica della politica estera Usa, non si capiva chi fosse Stanlio e chi, invece, facesse la parte di Ollio. Un periodo duro, al punto che il nostro cavaliere senza macchia e senza paura ha cominciato a non fidarsi più manco della sua ombra. Sia Kerry che il Ministro della Difesa, Chuck Hagel, sono stati tenuti a “bagnomaria” durante la stesura del piano segreto con l’Iran, mentre il Consigliere per la Sicurezza Nazionale, Susan Rice, avrebbe addirittura fatto una scenata di quelle storiche, per non essere stata consultata adeguatamente. In sostanza, in quella fase, Obama si è appoggiato solo su pochissimi intimi: il direttore della Cia, John Brennan, il capo dello staff della Casa Bianca, Denis McDonough, e il suo “adviser” più stimato, David Axelrod. Questo cambio di strategia in corsa ha provocato tutta una serie di ribaltoni: la Casa Bianca ha scelto Teheran come partner privilegiato, per cercare di raffreddare la crisi siriana e anche per risolvere definitivamente il rompicapo nucleare con gli ayatollah. Arabia Saudita, Egitto e sunniti di tutte le estrazioni sono passati rumorosamente dall’altro lato, avvicinandosi alla Russia di Putin. Altro segnale fin troppo chiaro che la Primavera araba si è trasformata in una lotta all’ultimo sangue tra gli sciiti e la galassia sunnita. Ora, il fronte caldo della crisi spacca, pericolosamente, il Golfo Persico in due. Il momento è cruciale, al punto che anche Emma Bonino, il nostro Ministro degli Esteri, è volata a Teheran per dare il suo contributo alla trattativa sul nucleare. Gli americani, invece, si sono scelti come interlocutore privilegiato il nuovo capo del Supreme National Security Council (SNSC) iraniano, ammiraglio Alì Shamkani. E non è un caso che a nominarlo in veste di “tessitore diplomatico” sia stato proprio Alì Khamenei, la “Guida Suprema”. D’altro canto, Shamkani ha un curriculum di tutto rispetto, che piace molto a Washington. Di origini arabe e sunnite (è nato nel Khuzestan), 58 anni, ha abbracciato la religione sciita senza le asprezze e il cieco zelo di molti altri esponenti del regime iraniano. Laureato in ingegneria, è stato Ministro della Difesa al tempo di Mohammad Khatami, il presidente riformista. Secondo i Servizi israeliani, Shamkani è ormai diventato l’interlocutore privilegiato di Obama e del Segretario di Stato, John Kerry. Pare che la Casa Bianca si consigli con lui, prima di parlare di bombe atomiche (e di Siria) col Ministro degli Esteri Javad Zafari e con il suo vice, Abbas Afaqchi. La filosofia dell’ammiraglio, che potremmo definire Dottrina Shamkani, è “zero problems e zero confrontations”. Cioè, per dirla terra terra, “tu non mi pesti i piedi e io non ti pesto i calli”. Da bravo uomo di scienza, saggio politico ed esperto militare (così lo dipingono i suoi collaboratori), Shamkani pare abbia convinto i suoi superiori col turbante che Stati Uniti e Iran, finora divisi sulla tattica, hanno, in fondo, interessi strategici comuni. Fino a poco più di trent’anni fa, Usa e Persia erano alleati di ferro. “Mettiamo da parte le cose che ci dividono e concentriamoci sugli interessi comuni”, predica senza troppi giri di parole l’ammiraglio “americanizzato”. Cominciando dalla scienza, che alla fine rende tutti “compañeros”. Dunque, Shamkani chiederà che tra i due Paesi si sviluppino forti legami nel campo della ricerca, consentendo a cospicui gruppi di studenti iraniani di andare a studiare negli Usa. Dello stesso pacchetto farebbe parte un piano di scambi di scienziati che lavorerebbero su progetti ben definiti. Uno di questi potrebbe essere quello riguardante il salvataggio dell’Urmia-Orumiyah, il più grande lago salato del Medio Oriente. Tra le altre cose, Shamkani ha il pregio di essere particolarmente stimato in Arabia Saudita e negli Emirati del Golfo, cioè proprio in quei Paesi che finora si sono messi di traverso, cercando di guastare la luna di miele tra gli Stati Uniti e Teheran. Pare sia stato proprio lui a ispirare il viaggio (anzi, il pellegrinaggio) di “Squalo” Rafsanjani nelle capitali del Golfo, volto a rassicurare le diplomazie della regione. Un compito più complicato attende Shamkani tra le mura domestiche. Qui pare che Khamenei gli abbia affidato la delicata missione di vincere le resistenze interne dei “duri e puri”, in particolare delle Guardie Rivoluzionarie, agli accordi di Ginevra sul nucleare. Sul fronte siriano, gli iraniani hanno nominato un nuovo comandante in capo: il generale Morteza Rezaie, incaricato di schiacciare le ultime resistenze dei ribelli sunniti sui Monti Qalamoun, a ridosso del Libano. Le brigate di Teheran, assieme alle milizie di Hezbollah e a quelle dell’Irak del nord, si scaglieranno poi contro gli anti-governativi che combattono ad Aleppo. E così il cerchio si chiuderà. Assad resterà al potere, con la benedizione di Obama, il nord della Siria sarà una zona d’influenza persiana, mentre il sud diventerà una specie di “protettorato” americano. Due anni e mezzo di guerra e quasi 120 mila morti per accorgersi che “avevamo scherzato”.