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L’Irak è piombato ormai
nel caos più totale


di Piero Orteca

  Dopo anni di presenza americana in Irak, la situazione militare, politica e sociale, tra il Tigri e l’Eufrate, è andata a farsi strabenedire. Un tragico e sanguinoso gioco dell’oca ci ha riportati alla casella di partenza. Anzi, peggio, visto che al Qaida si è quasi pappata alcune importanti città, mentre qualcuno, paradossalmente, già comincia a pensare che “forse si stava meglio quando si stava peggio” (cioè, per capirci, arriva a rimpiangere Saddam Hussein). In Irak ormai si vive (si fa per dire) alla giornata, sperando che l’a u t obus in cui ti trovi non salti per aria o che al mercato dove stai facendo acquisti, come “resto” non ti tirino una raffica di kalashnikov. La democrazia? Parliamo d’altro. Chi si è sbarazzato di Saddam (che pure nella sua follia di sanguinario dittatore teneva a bada gli sciiti iraniani e i sunniti di al Qaida) è stato servito di barba e capelli. La famosa “tripartizione” voluta da Bush (figlio) non ha mai funzionato. I curdi a nord, i sunniti al centro e gli sciiti a sud hanno continuato a darsele di santa ragione, per usare un pietoso eufemismo, visto che le tonnellate di tritolo vanno e vengono che è un piacere. La mazzata finale è arrivata con la “Primavera araba”, cioè con la guerra mondiale tra sunniti, sciiti e mille altre etnie religiose, scatenatasi dopo il commovente tentativo degli anglo-franco-americani di “esportare la democrazia” (e vagonate di armi) e, statene certi, di “importare” dalle lontane contrade della Mezzaluna, petrolio e materie prime, strappando contratti miliardari ai nuovi padroni (da loro piazzati sui seggioloni del potere). Obama, capita l’antifona, appena ha messo il primo mignolo alla Casa Bianca, ha solo pensato a scappare da Baghdad. Non interessa come: anche nottetempo, in pigiama e a piedi scalzi, ha fatto di tutto pur di uscirsene da un tritacarne costato miliardi di dollari e migliaia di vite. È stata così attuata una “exit strategy”. Fa fino, ma significa solo uno straccio di piano per smammare senza perdere la faccia. Che però ha funzionato solo in parte, perchè non appena gli americani hanno fatto le valigie, sauditi e ayatollah hanno dato fuoco alle polveri, scannandosi (al momento) per interposta persona o, meglio, per “i n t e rposte milizie”. Infatti, in questo momento, l’interrogativo scottante che coinvolge la diplomazia internazionale è: chi colmerà il vuoto di potere nel Golfo Persico? Ecco spiegati (anche) gli 80 morti in un solo giorno dell’altro ieri. Insomma, l’u n ica cosa che gli americani sono riusciti a “esportare” è stata una terribile confusione diplomatica e una baraonda milita- re sul campo, dove tutti sparano a tutti. I terroristi di al Qaida, che ai tempi di Saddam Hussein stavano tappati in casa con le serrande chiuse e tremavano non appena qualcuno suonava il campanello, oggi comandano. Sono sunniti estremisti, ma il premier iracheno (al Maliki) è sciita (come buona parte dell’esercito). Poi ci sono i sunniti “moderati”, i salafiti, i wahabiti, i curdi e millanta altre tribù, fazioni, clan e “f a m iglie allargate”. Tutti regolarmente coi kalashnikov sotto i cuscini e con la dispensa strapiena di candelotti di dinamite. I risultati? Andiamo alla cronaca e ce ne renderemo conto. Le forze filo-qaidiste avrebbero conquistato (usiamo il condizionale, perché la situazione sul terreno cambia di ora in ora) ampie zone di Falluja e Ramadi, come scrive il Washington Post, dopo giorni di sanguinosi combattimenti e hanno subito dichiarato la creazione di un’enclave islamico- fondamentalista. Gli scontri hanno interessato tutta la provincia di Anbar. Le forze governative hanno tentato una controffensiva attraverso pesanti bombardamenti, ma per ora i qaidisti dello “Stato islamico in Iraq e Levante” (Isis) non mollano. Nel frattempo, è stata diffusa la notizia che nel corso dei combattimenti sarebbe rimasto ucciso lo stesso leader dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi. Ma fonti dei servizi segreti occidentali smentiscono e, anzi, sostengono che l’alto esponente di al Qaida starebbe orchestrando una controffensiva contro l’esercito, partendo da Bakouba, nell’est del Paese. Dal canto loro, fonti israeliane (inutile ribadirlo, le più informate) parlano di una “p e s a ntissima sconfitta subita dai governativi”. In particolare, la Prima e la Settima divisione sarebbero state sbaragliate dalle milizie dei fondamentalisti. I soldati sarebbero fuggiti a gambe levate verso la capitale, lasciando nelle mani dell’Isis una vera e propria collezione di armi pesanti. Ma le brutte notizie non si fermano qui. Spifferi in arrivo da Gerusalemme rivelano un fattore cruciale (e inquietante) che starebbe dietro la sonante vittoria dei qaidisti: alcune milizie tribali sunnite, addestrate e armate dagli Usa ai tempi del generale Petraeus, per contrastare i fondamentalisti (la tanto decantata strategia della “Surge”) si sarebbero alleate con i terroristi, rivoltandosi contro i governativi e “r e g alando” le chiavi delle città ad al Qaida. Insomma, se non ci fosse da piangere, per tutti i morti che si accatastano giorno dopo giorno, ci sarebbe da ridere. I piani di guerra di Washington sembrano copiati, fino all’u l t ima battuta, da un film di Totò, con gli americani, che non ne azzeccano una, a fare la figura dei brachettoni. Per la verità, occorre anche dire che al Arabiya, parla di “altre” non precisate milizie che avrebbero fatto, invece, sloggiare i qaidisti da alcuni quartieri di Falluja. Insomma, la confusione regna sovrana. Secondo gli israeliani, adesso il mare per Obama si fa veramente salato. Ed elencano, nell’ordine, le rogne che la Casa Bianca dovrà affrontare. 1) Nell’area non ci sono forze militari sufficienti a fermare i qaidisti dopo la “f uga” statunitense dall’Irak di tre anni fa. 2) La legnata assestata sulla capa dell’esercito di Baghdad ha ridato vigore a tutti i gruppi jihadisti della regione, a cominciare da quelli che operano nel Sinai. 3) Aumenta, in modo esponenziale, il rischio-attentati per l’Arabia Saudita, la Giordania, il Libano, l’Egitto e lo stesso Israele. 4) Il Fronte al Nusra, in Siria, potrebbe presto aderire al nuovo Califfato. È atteso, in questo senso, un annuncio ufficiale del leader, Abu Mohammad al-Julani. 5) La sconfitta di al Maliki, premier sciita irakeno, è innanzitutto uno scoppolone per l’Iran. Come reagiranno gli ayatollah? 6) Ancora una volta gli americani hanno scelto il cavallo sbagliato, spedendo piroscafi carichi di armi che poi sono state puntate contro di loro. 7) Il governo iracheno ha praticamente esaurito le sue forze militari da impiegare nella battaglia. L’unica alternativa, suggeriscono a Gerusalemme (e forse lo hanno già detto chiaro e tondo anche al sempre più rintronato Obama) è di fare come i romani dopo il massacro cartaginese di Canne: sbarrare le porte della capitale e asserragliarsi dietro le sue mura per difenderla. Sperando di non perdere pure Baghdad. 8) Cosa succederà in Siria? Assad ed Hezbollah, che già cantavano vittoria, dopo aver fatto rincagnare i Premi Nobel della diplomazia occidentale, chiederanno aiuto a “compare” Putin? E in questo caso, gli accordi di Ginevra potranno essere rimessi in discussione? Eravamo rimasti alla “esportazione della democrazia”. Strategia di politica estera che, visti i i risultati, ormai affascina solo gli inguaribili sognatori e alla quale, invece, fanno sempre finta di credere gli imbroglioni in doppio petto. “Libertà, quanti delitti si commettono in tuo nome”, pare abbia esclamato, in piena Rivoluzione francese, la viscontessa de la Platière mentre la conducevano alla ghigliottina.  

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