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Pesanti critiche a Obama
dall’ex ministro Gates


di Piero Orteca

 La settimana prossima, in America, siatene certi, se ne sentiranno di tutti i colori su Obama. Il motivo? Semplice. Come è già capitato in passato, dopo la pubblicazione di libri che rivelano le segrete cose della Casa Bianca, gli “anchormen”, i commentatori più “à la page”, i mass media nazionali e di periferia, dalle grandi città fino alle Montagne Rocciose, gli analisti dei “think tank” e gli avventori di caffetterie, pub e birrerie, se le daranno di santa ragione (metaforicamente), schierandosi di qua e di là. Questa volta, però, l’occasione è particolare: ad aprire il fuoco contro Superbarack è nientemeno che l’ex ministro della Difesa, Robert Gates, autorevole componente della squadra di Obama per due anni. Nel suo libro “Duty: Memoirs of a Secretary at War” (“Il dovere: memorie di un Ministro in Guerra”, edito da Knopf), che sarà presentato martedì, infatti, Gates dipinge il presidente come una specie di pupo, capace di ordinare una cosa e di pensarne un’altra. Un comandante in capo che, in Afghanistan (e in Irak), mentre i soldati Usa crepavano a migliaia, avrebbe semplicemente applicato una “dottrina” (vecchia quanto il mondo e diffusa tra i politicanti) da “armiamoci e partite”. E chi si è visto si è visto. Accuse pesanti, appena mitigate da altre considerazioni, da ritenere addirittura quasi lusinghiere (e, sia detto con chiarezza, abbondantemente contraddittorie), sull’operato della Casa Bianca. Il fatto, a raccontarla tutta, è che sull’affaire è già scoppiato un mezzo putiferio, perché le anticipazioni sul libro sono state fornite solo a pochi “privilegiati”. Tra cui Bob Woodward, il giornalista dello scandalo Watergate, specializzato nel pestare a sangue i presidenti, da Nixon fino a Bush figlio. Ora, Woodward si è messo a fare “nero” anche Obama (quasi una tautologia, detto con tutto il rispetto), esprimendo giudizi “tranchant” sulla sua politica estera e sul suo carisma di “capo” e suscitando reazioni in qualche caso inviperite. Ma andiamo alla “pietra dello scandalo”, cioè il libro lanciato come un laterizio sulla capa del presidente e di tutta la sua Amministrazione. Intanto, cominciamo a stabilire una cosa: Gates ha un “pedigree” politico bipartisan. È stato, infatti, capo del Pentagono sia col repubblicano Bush che con il democratico Obama, che ha affiancato per due anni durante il primo mandato. Ha messo il piede in due staffe, insomma, con tutti i pro e i contro che ne conseguono. Una caratteristica che risalta da una prima analisi degli stralci delle sue “memorie”, centellinati ad arte, tra amici, parenti e vicini di casa. Un fatto che ha contribuito a imbufalire tutti i commentatori americani rimasti fuori dal giro. L’embargo (cioè il tenere segreti i contenuti del libro), pensano ecumenicamente giornalisti e politologi, deve valere per tutti. O per nessuno. Ma non è stato così. A Woodward è arrivata una copia del laterizio (che “pesa” 640 pagine), mentre il Wall Street Journal ha addirittura pubblicato parte di un capitolo da cui, guarda caso, Obama esce “viola” come una melanzana. In particolare, dicono i bene informati, Gates si toglie dalla scarpe una decina tra sassolini e chiodi a tre punte, che evidentemente si portava appresso da quando aveva lasciato il Pentagono sbattendo (quasi) la porta. Le prime bordate sono riservate ai rapporti col Congresso, verso il quale non mancano giudizi al vetriolo. Gates definisce molti tra deputati e senatori “incivili, incompetenti, ipocriti, egoisti e provincialotti”. Ma non basta. L’accusa più forte arriva quando, usando la penna come un rasoio, scrive che “sono pronti a mettere i loro interessi personali davanti a quelli della Nazione”. Insomma, verrebbe voglia di dire, fin qui tutto il mondo è Paese. Botte da orbi anche per il vice-presidente, Joe “chil’hamaivisto” Biden. Certo, “uomo di grande integrità”, ma anche detentore del formidabile record “di non averne mai azzeccata una in politica estera negli ultimi quarant’anni”. A cominciare dall’Afghanistan, dove Biden ha predicato l’utilizzo di una strategia “di corte vedute”. Legnate anche a Obama, “democratico” solo a chiacchiere. Nel senso che avrebbe costruito una macchina amministrativa personale, parallela a quella istituzionale, che controlla tutto ciò che si muove. Dove, insomma, adviser, capi-staff, dattilografi e uscieri, contano più dei ministri e dei consiglieri per la sicurezza nazionale. Non è una barzelletta, ma se la metà di ciò che scrive Gates fosse vero, la Casa Bianca ricorderebbe molto da vicino lo stile del Cremlino nei primi Anni ‘50, quando Stalin invitava alle sedute molto informali del Politburo (alle tre di notte) anche amici, parenti e sguatteri (tutti rigorosamente georgiani come lui). Che prendevano la parola e battevano pure i pugni sul tavolo, tra una bottiglia di vodka e un’aringa affumicata. C’è poco da ridere: è tutto vero. Narra Nikita Krusciov nelle sue memorie che, in tanti anni, mai nessuno ebbe il coraggio di chiedere a Stalin chi fosse quell’omino, che prima scopava il pavimento e poi si sedeva a tavola e pigliava la parola, parlando di America e di bombe atomiche. Misteri e paradossi della storia. Tornando a Obama, Gates afferma di essere stato più volte “tentato di dimettersi” in disaccordo con il caravanserraglio di personaggi che entravano e uscivano dallo Studio Ovale. L’ex Ministro della Difesa punta il dito contro lo staff della Sicurezza Nazionale, impiegati statali che osavano chiamare al telefono persino generali a quattro stelle. Nel mirino, in particolare, il vice capo dello staff del presidente, Tom Donilon, e lo stesso “chil’hamaivisto” Biden, che si permettevano di dare ordini a Gates in nome e per conto del presidente. Il Ministro della Difesa racconta di scontri infuocati, di stracci che volavano ad altezza d’uomo e di piatti in faccia a profusione. Con Hillary Clinton, Segretario di Stato (sulla carta) quasi idrofoba per le imbeccate che le piovevano in testa da funzionari e tirapiedi di mezza tacca presenti nella squadra presidenziale. Ma l’ex responsabile del Pentagono va ben oltre. Parlando della facilità con cui oggi si ricorre alle armi “quasi come in un videogame”, Gates accusa Obama di essere andato appresso a chi, troppo spesso, gli consigliava l’uso della forza (Primavera Araba?). Tanto, vista da lontano, aggiunge il nostro, la guerra sembra “asettica, senza sangue e non fa puzza”. Più tenero (ma a sproposito, come vedremo), l’ex Ministro si dichiara sull’Irak, Paese in cui la “exit strategy” americana mirava a fare le valigie senza lasciare un vuoto che altri (l’Iran e l’Arabia Saudita) avrebbero potuto riempire. Canta vittoria troppo presto, però. In questi ultimi giorni, infatti, ci ha pensato al Qaida a prendere possesso, armi e bagagli, delle città abbandonate dagli Stati Uniti al loro destino. E così torniamo all’Afghanistan, ritenuta la vera patata bollente con la quale Obama si è ustionato. Quando? Secondo Gates, nel momento in cui ha ufficialmente sostenuto la “Surge” del generale Mc- Chrystal senza convinzione, permettendo ad altri 30 mila soldati Usa di partire (e, a diversi di loro, di morire), salvo lasciarsi andare, con i suoi confidenti, alle previsioni più fosche. Insomma, non ci credeva ma ha dato lo stesso l’ordine. E, tanto per intingere nel curaro il kriss malese con cui va all’assalto del presidente, l’autore delle “Memorie” rivela che Obama avrebbe confessato a Lady Clinton di utilizzare le scelte in Afghanistan per cinici obiettivi di politica interna. Ma la scoppola più forte, per finire in gloria, Gates, ex Direttore della Cia e oggi gran capo…dei boy-scout americani (non è una battuta), torna a riservarla al Congresso americano. Definendo i deputati e i senatori figli degnissimi della città che diede i natali ad Enea. Insomma, ci siamo capiti.

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