Qualcuno diceva che “a pensare male si fa peccato, ma spesso si azzecca”. Ora, non sappiamo se questa filosofia spicciola, frutto dell’esperienza maturata nella vita quotidiana e in mille battaglie combattute nelle stanze più o meno nobili della politica, sia universalmente applicabile. Certo, a guardare Obama ci viene un dubbio: non è che il presidente Usa, per togliersi qualche pietruzza dalla scarpa, va preparando un “piattino” di quelli storici per il prossimo candidato democratico alla Casa Bianca? Ci spieghiamo. Ormai anche i gatti del quartiere pensano che un simile “front runner” possa (o debba) essere “Miss simpatia” (è una battuta…), al secolo la signora Hillary Rodham Clinton. Brava, perspicace, lungimirante, ma, sotto sotto, a sentire certi spifferi che circolano nei salotti nuovayorchesi, una specie di “mala-suocera”. Bene, lei non ama di sicuro Obama. Ed è cordialmente ricambiata. Il sospetto viene (non solo a noi) a guardare la conduzione dell’economia Usa che va facendo Superbarack, specie nel campo, molto ma molto minato, del debito pubblico. In sostanza, l’attuale presidente americano, più che dall’Illinois, sembra arrivare dritto filato dai “pensatoi”(si fa per dire) della politica romana. Dove, da decenni, si firmano “farfalle”e si campa a cambiali. Tanto, prima o dopo arriva Pantalone a pagare per tutti. In effetti, la questione del debito federale a stelle e strisce è ormai diventata una specie di bomba a orologeria, che rischia di scoppiare con effetti catastrofici per tutta l’economia mondiale. Per noi italiani, comunque, è come parlare di corda in casa dell’impiccato. Col debito pubblico ci confrontiamo a partire dalla culla, costretti come siamo ad arrancare armati di straordinaria tolleranza e galleggiando tra tasse, imposte e balzelli d’ogni tipo. Attenzione, però: se qui da noi lo Stato diventa predone, spremendoti come il tubetto del dentifricio, per concederti, in cambio, ospedali dove entri sano ed esci malato, una burocrazia da basso impero e città in crisi di nervi per la Tares (ma con la spazzatura fino al primo piano), oltre Atlantico è diverso. Là agli elettori salta facilmente il ticchio e possono disinvoltamente cambiare, in mezza giornata, lo schieramento politico votato da una vita. I servizi pubblici Usa funzionano, ma i costi sono spropositati e, soprattutto, fuori controllo. A partire dal 2008, il debito federale è cresciuto, sull’unghia, dell’astronomica cifra di 4,7 trilioni di dollari, arrivando complessivamente, a toccare quasi 18 trilioni, cioè circa il 105% del Prodotto interno lordo. Tutto questo senza contabilizzare alcuni impegni di spesa pluriennali che, in ogni caso, dovranno essere onorati Noi italiani, è vero, conviviamo con un fardello che è il 130% del Pil (il Giappone, addirittura, col 230%), ma nel caso americano è la velocità di “fare debiti” che fa paura. Attualmente, a Washington si “viaggia” a una media (insostenibile) di circa 650 miliardi di dollari di deficit pubblico all’anno e qualcuno parla apertamente di “default”, apocalisse finanziaria e via terrorizzando di questo passo. Il fatto è che, per quadrare il cerchio e metterci una pezza, Obama deve mettersi ciclicamente l’elmetto e scendere in trincea, affrontando il bombardamento dei repubblicani, che alla Camera hanno la maggioranza. Le leggi di bilancio federali prevedono, infatti, un “tetto del debito” (“debt ceiling”), per evitare di sforare. Il problema è che, invece, si passa di sbracamento in sbracamento, perché il “buco” si allarga in modo incontrollabile e il presidente, come il mitologico Atlante, si deve caricare il mondo (di cambiali) sul groppone, elemosinando consensi che lo autorizzino a fare più debiti. Insomma, è un cane che si morde la coda. Recentemente, continuando a rattoppare i copertoni, Obama è riuscito, è vero, a far votare una legge “bipartisan” per avere due anni di respiro e poter riuscire a dormire senza gli incubi, ma, come vedremo, la mossa lascia il tempo che trova. Quando suonano al cancello della Casa Bianca, il terrore è che (metaforicamente) si presenti l’ufficiale giudiziario mandato dai repubblicani a pignorargli pure la scrivania. Questa volta non è una battuta. Quando si tratta di “sghei” (e di tasse) gli americani non guardano in faccia manco la famiglia, figuratevi il presidente… Secondo gli esperti, il problema, cacciato dalla porta, rientrerà presto dalla finestra, perché come tutte le leggi di compromesso, il “Cross-party budget committee Act” è volutamente vago e fa acqua da tutte le parti. Insomma, presto Obama potrebbe essere costretto a ritornare a girare, col cappello in mano, fra i banchi del Congresso, per strappare altre concessioni finanziarie: nuovi “pagherò” onde evitare lo “shutdown” di molti uffici pubblici, così come si è verificato, lo scorso anno. Certo, non è un bel governare quello che ti obbliga a fare i conti quattro volte al giorno anche per comprarti un hot-dog e le patatine fritte. Perché di questo si tratta. I margini di manovra per tenere in piedi il carrozzone dei servizi federali sono ormai ridotti al lumicino e il presidente deve mettere d’accordo il pranzo con la cena. Pensate che la situazione si è fatta talmente delicata da obbligarlo (lui, notoriamente e sinceramente votato alla solidarietà) a tagliare i sussidi a oltre un milione di disoccupati. Standard and Poor’s, qualche mese fa, non ha guardato in faccia manco Obama, degradando l’affidabilità del sistema America da AAA a AA+. Un gesto simbolico, ma che rischia di avere implicazioni incontrollabili in futuro. Anche perché sarebbero in arrivo nuove scoppole e pedatone nel sedere da parte delle spietate società di “rating” che, di fronte alla montagna di debiti a stelle e strisce, non possono certo girarsi dall’altro lato. E perdere tutti i clienti. La Casa Bianca e il Tesoro hanno reagito indignati (allora), sostenendo che la società di rating ha sovrastimato il debito federale “di almeno 2 trilioni di dollari”. Anche la Federal Reserve aveva cercato di gettare acqua sul fuoco, ma la ferita resta ancora aperta. Il nocciolo del problema sta nell’accordo raggiunto, come sempre all’ultimo secondo, proprio sul “tetto del debito”, che riguardava “solo”2,1 trilioni di dollari, mentre Standard and Poor’s aveva chiesto almeno 4 trilioni di dollari di margine. Avere perso le elezioni di “medio termine” ha reso Superbarack una vera e propria “lame-duck” (“anatra zoppa”), come dicono in America, cioè come abbiamo già sottolineato, un presidente costantemente costretto ad accattonare voti “bipartisan” nel Congresso per riuscire a far approvare le leggi di spesa. Obama ha dovuto mediare tra gli assatanati repubblicani che, forbici alla mano, volevano tagliare anche la luce alla Casa Bianca, e gli “amici” democratici, che pur di vederlo in fondo al Potomac avevano affossato senza pietà un primo straccio d’intesa. Ma, pensa qualcuno, vedrete che alla fine Obama non si dannerà l’anima. Gli specialisti dicono che il chiodo fisso di ogni presidente americano, al primo mandato, è essere rieletto. Per questo passa ai raggi X, tutte le mattine, fatture, scontrini e ricevute che arrivano al Tesoro federale per essere pagati. Una volta tornati nello Studio Ovale, invece, i presidenti, nel secondo quadriennio, diventano di manica larga e, se ne hanno la possibilità, riescono a impegnarsi pure i chiodi dei muri. Passeranno alla storia per le spese sociali e saranno ricordati per la straripante generosità. Se poi il prossimo candidato del partito alla Casa Bianca non gode del loro affetto, beh, vorrà dire che lo sfonda-piedi è elegantemente preparato. Con tutti quei debiti, nemmeno Washington e Lincoln riuscirebbero a vincere le elezioni. Figurarsi Hillary Clinton, obbligata a ricordare ai suoi compatrioti che dovranno pagare i conti dell’economia di Obama. Con gli interessi.
Obama con l’ufficiale
giudiziario dietro
la porta
di Piero Orteca
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