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Banche europee, i
tedeschi ancora
di traverso


di Piero Orteca

  Banche sotto “stress” (nel senso di esame), tedeschi sempre più inferociti e desiderosi di tagliare la “cabeza” di “Supermario” (Draghi), istituzioni comunitarie impegnate a riscrivere, di giorno, tutto quello che cancellano la notte, e indicatori statistici diventati, improvvisamente, come la pasta per la pizza: dove, tira di qua e tira di là, i buchi si sono ormai trasformati in voragini. Certo, a parlare di economia europea bisogna proprio essere inguaribili ottimisti (o ingenui col salame sugli occhi, fate voi) per non vedere i tizzoni ardenti che covano sotto la cenere e le zaffate di acido solforico spacciate per fragranze provenzali. Qua non si tratta di “amare” l’idea di un Vecchio Continente diventato “patria comune” (per decreto regio). Tutti noi ci sentiamo figli di un’unica cultura. Anche se a molti, specie negli ultimi tempi, frulla per la testa il sospetto di essere considerati figli di qualche altra cosa, visti i risultati di cotanta solidarietà e i sedici pesi e le sedici misure adottate. Insomma, e lo ribadiamo per la miliardesima volta, ci consideriamo “europei”e facciamo il tifo per l’Unione, ma…ma non a costo di ingollare tutte le schifosissime sbobbe cucinate a Bruxelles e che ci contrabbandano come pietanze a cinque stelle. E siccome la lingua batte dove il dente duole, oggi torniamo a parlare di banche. Non è né un vezzo, né un’antipatia congenita, per carità. Il fatto è che se qualcuno vuol capire come mai, in meno di sette anni, l’economia occidentale ha fatto un triplo salto mortale carpiato all’indietro (assieme alla nostra qualità della vita), basta citare alcuni dati evidenti, che solo gli imbroglioni in doppio petto o gli strabici in servizio permanente effettivo ignorano. Il sistema finanziario non va e, finora, le pezze messe per rattoppare il copertone sono state peggio dei buchi sul battistrada. E così torniamo alla “madre” di tutte le pandemie finanziarie, cioè l’avidità di “fare soldi”, tutto e subito, di un certo sistema bancario (quello americano in primis, ma anche di diversi circuiti europei e dell’Estremo Oriente). Dopo millanta riunioni, a Bruxelles, è stato deciso rivedere le regole, per evitare che le banche, specie quelle più grosse, funzionino come un totalizzatore ippico. Per questo, martedì prossimo, i ministri finanziari dell’Ecofin dovranno mettersi d’accordo sui “paletti” e sul funzionamento del “Fondo Europeo di Risoluzione”, studiato come strumento di salvataggio e fondamentale “step” verso l’unione bancaria. E qui sono già scoppiate le ennesime polemiche tra i tedeschi e il resto della truppa, capitanata dal presidente della Bce, l’italianissimo Mario Draghi, il quale preme (per usare un eufemismo) affinché il Fondo sia operativo il più presto possibile. Forse perché sente già puzza di bruciato e intende chiamare l’ambulanza prima ancora che si verifichi qualche tamponamento a catena. In Germania, è noto pure ai gatti, non condividono, per niente, la filosofia della Bce e vedono il suo presidente come il fumo agli occhi. La locomotiva dell’Unione cammina per conto suo e, messa da parte la Banca Centrale Europea, guarda solo (e piglia ordini) dalla Bundesbank e da tutto quello che è “Bundes” (dalla Bundeskanzelerie, la Cancelleria Federale, al Bundestag, il Parlamento). E, quando una cosa ai tedeschi va storta (perché non gli consente di guadagnare quanto vorrebbero), lo abbiamo scritto e lo ripetiamo, allora gli salta il ticchio. Come nel caso della (molto ipotetica) Unione bancaria continentale. “Supermario” Draghi è così diventato il bersaglio privilegiato dei rancori (e delle paure) di Grosse Deutschland, che finora, zitti e mosca, aveva fatto ballare pupi e tavolini. In sostanza, col Fondo di Risoluzione, Draghi vuole evitare che le crisi bancarie obblighino gli Stati a costosissimi salvataggi. Interventi che, con un “effetto domino”, finirebbero poi per trasferirsi e trasformarsi, dritti filati, in debiti “pubblici” a carico dei contribuenti (come avvenuto in Irlanda). Tutto liscio, quindi? Un corno, dicono proprio i tedeschi, che di solidarietà “pelosa” non vogliono sentire parlare e replicano chiedendo che ognuno si pianga le sue rogne. Al Fondo (dotazione prevista 55 miliardi di euro), infatti, dovrebbero contribuire, in primis, soprattutto loro, che non ne hanno bisogno, a favore (pensano) dei Paesi del Sud Europa, che spendono e spandono senza ritegno. Così, per abbozzare uno straccio di accordo, che lasciasse tutti gabbati e contenti, si è deciso di allungare mezzo litro di brodo con un bidone d’acqua: il Fondo entrerà in funzione “entro dieci anni a partire dal 2016”e il “piatto” (sembra una mano di poker) disponibile per ciascun Paese dovrà essere predeterminato. Onde evitare scherzi, pensano le Sturmtruppen finanziarie di Frau Merkel. Insomma, a Berlino proprio non ne vogliono sapere di scucire un centesimo per le banche degli altri che si dovessero trovare sull’orlo di un mortale dirupone, e anzi pensano, poco europeisticamente, che “mors tua” in pratica significa “vita mea”. Nel terzo capitolo della “Saga dei Nibelunghi” che va in scena alla Bce di Francoforte, questa Draghi non se l’è proprio calata. Anzi, ha replicato, con le narici fumanti, che “dieci anni sono troppi per mettere in moto il Fondo”. Il suo parere è che gli sforzi debbano essere raddoppiati, per arrivare a un’intesa su un arco temporale di cinque anni, prima, aggiungiamo noi, che il Titanic bancario europeo, coli a picco, come un ferro da stiro. Ma le perplessità non si fermano di sicuro alle procedure e coinvolgono anche la dotazione stessa del Fondo. I 55 miliardi previsti fanno ridere (o piangere, dipende dai punti di vista). Pensate che solo la Spagna ha qualcosa come 300 miliardi di euro di “esposizioni creditizie problematiche” e, certo, non bisogna aver studiato ad Harvard per capire come potrebbe andare a finire, con le banche di quel Paese trasformate in tante “Plazas de toros”. Il rifinanziamento del Fondo, insomma, toglie il sonno a più di un architetto finanziario della Bce e si stanno già studiando strumenti di aggiustamento in corsa, per reperire i denari che dovessero rendersi necessari. Draghi ha parlato di un possibile ricorso all’Esm (European Stability Mechanism). Ma la verità è un’altra: tutti temono le sentenze che verranno fuori dai nuovi “stress test”, cioè dagli “esami del sangue” a cui saranno sottoposte le banche europee quest’anno, per valutare il loro stato di salute. I test si annunciano molto più duri e selettivi di quelli (all’acqua di rose) fatti in precedenza. Ma proprio la necessità di essere scrupolosi e di non guardare in faccia nemmeno i parenti ha fatto lanciare un segnale d’allarme al Financial Times, sui criteri di valutazione del sistema bancario europeo. I criteri sono giudicati “troppo farraginosi” e le procedure utilizzate “un vero labirinto”, tale da coinvolgere ben nove “panels” e ben 143 giudizi diversi. I problemi, viene sottolineato, saranno acuiti dalla stesura degli accordi finali, che tende sempre a essere vaga, per non indispettire i firmatari e accontentare tutti. Così la burocrazia, cacciata dalla porta, rientra alla grande dalla finestra, per la disperazione dei cittadini europei, costretti a convivere con un caravanserraglio di scrivani e per la gioia degli “euro-travet” e dei loro protettori, politicanti che guazzano a meraviglia nella melma dei codicilli e delle circolari. Insomma, i ministri finanziari dell’Unione si sforzeranno di mettersi d’accordo sui “paletti” e sul funzionamento del Fondo Europeo di Risoluzione Bancaria, la “Croce Rossa” delle banche che hanno un piede nella fossa. Siamo sicuri che riusciranno a definire l’ammontare della dotazione e il tipo di procedura per l’accesso al “pronto soccorso”. Tanto, alla fine, chi paga l’avete già capito.

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