Quando Barack Obama, alla fine del mese, arriverà in visita ufficiale in Arabia Saudita, dovrà portarsi il cappotto. Perché, nonostante i 40 gradi previsti e le torride giornate che lo attendono, il clima che lo interessa di più, quello politico, sarà gelido. Il presidente americano lo sa e, proprio per questo, ha programmato la tappa di Riad: vuole cercare di mettere una pezza ai disastri provocati, negli ultimi tre anni, dalla “foreign policy” a stelle e strisce, che in Medio Oriente non ne ha ingarrato una che sia una. Dalla “Primavera araba” in poi sono state solo scoppole e pedatone nel sedere, mentre la guerra in Siria ha rappresentato la classica ciliegina su una torta ormai rancida. Una torta avvelenata dai nuovi idilli tra Teheran e Washington, che hanno scatenato un putiferio in tutto il Golfo Persico. Così i vecchi nemici iraniani sono diventati buoni “conoscenti”, mentre l’antica amicizia con i sauditi è andata a farsi strabenedire. E infatti, udite udite, sceicchi e califfi della Penisola arabica, comodamente sdraiati su un mare di petrolio, si accingono a predisporre per Obama un bel pesce d’aprile: una partnership strategica con la Cina. Cioè un quasi-rovesciamento delle alleanze, che farebbe fare, per l’ennesima volta, agli “adviser” della Casa Bianca la figura dei brachettoni patentati. La ferale notizia arriva “di sguincio”, ovverossia dagli israeliani, sempre più imbufaliti per la linea di “appeasement” che gli americani hanno scelto di seguire con gli ayatollah e via discorrendo (a cominciare dalla Siria). E così, la comunità internazionale, tutta presa dalla rogna ucraina (dove il tanto invocato principio di autodeterminazione funziona a intermittenza, come le luci dell’albero di Natale), non si sta accorgendo di quello che succede nella regione più calda del pianeta, il Medio Oriente. Bah, misteri di una diplomazia sempre più ingarbugliata, dove la tradizione e la competenza si sono perse per strada, mentre nella mischia si agita un manipolo di dilettanti allo sbaraglio. Ma torniamo ai sauditi, fuori dalla grazia di dio. Per far capire a Obama, John Kerry, Hagel e a tutta la settima generazione democratica che detta i tempi della politica estera Usa, quello che passa il convento, il Principe Salman Bin Abdulaziz si è catapultato a Pechino a preparare il “piattino”. Cioè a proporre un accordo strategico agli omini con gli occhi a mandorla che, zitti zitti e quatti quatti, si stanno comprando i cinque continenti. Dunque, funziona così: visto che gli americani abbaiano ma non mordono (chiamali fessi) e che si accingono a smammare dall’Asia Centrale, dal Golfo Persico, dalla Mesopotamia e dal Medio Oriente, perché non trovarsi un altro guardaspalle di peso, capace di controbilanciare l’invadenza (sciita) degli ayatollah? Detto fatto, i sauditi hanno pensato ai cinesi. Io do un bidone (di benzina) a te, dicono a Riad, e tu dai un bel missile a me. Semplice no? E alla fine, tra taniche e “tanks”, la figura dei bidoni (quelli veri) la facciamo fare agli americani, che non sanno comandare a casa loro (vedi Messico e America Latina) e pretendono di comandare a casa degli altri. In Israele sono convinti che, sottobanco, i primi protocolli commerciali siano già stati firmati con Pechino. Secondo voi, dicono a Gerusalemme, Alì Naimi, Ministro del Petrolio saudita, di cosa ha parlato col presidente cinese Xi Jinping? Comunque vada, ormai il dado è tratto e, se non fanno attenzione, gli Stati Uniti, nel Golfo Persico (e non solo là), potrebbero perdere carrozza e cavallo. Obama, lo abbiamo già scritto, vuole salvare il salvabile. Ma in Arabia Saudita cresce il furore anti-americano, soprattutto per il benservito presentato ad alcuni storici alleati (come l’egiziano Mubarak), per lo sbriciolamento tribale della Libia e per i giri di valzer con l’Iran e la Siria. A Riad, più che i sacri testi della partecipazione democratica e delle libertà individuali, interessa guardarsi le terga dai terroristi sunniti di al Qaida e dai nuovi padroni sciiti del Golfo (che si stanno attrezzando con le bombe atomiche). Obama lo sa e sta cercando di riguadagnare il terreno perduto mostrando, come si dice in questi casi, la bandiera. Qualche giorno fa, “commandos” partiti da due cacciatorpediniere Usa hanno dirottato una petroliera che stava scappando dopo avere derubato un carico di greggio libico. Ma evidentemente è ancora poca cosa. L’ex ambasciatore a Londra e Washington, principe Turki al-Faisal, in un’intervista concessa al Financial Times, ne ha scaricate di tutti i colori sulla politica estera americana. Sul banco degli imputati Obama e i suoi consiglieri, in relazione al terremoto provocato col sostegno “a fondo perduto” dato alla “Primavera araba”. Non solo. Turki ha aggiunto che la Casa Bianca sembra preoccuparsi dei destini dell’Iran e dei palestinesi, lasciando tutti gli altri, col sedere per terra, a sbrigarsela da soli. L’impressione, conclude a mo’ di epitaffio il diplomatico, è che l’America stia scappando dal Medio Oriente a gambe levate. In effetti, parlare di “confusione” nelle relazioni internazionali che interessano la regione, è un patetico eufemismo. Le cose hanno preso una piega che, fino a un anno fa, sarebbe stata definita “cervellotica” da tutti gli osservatori. In pratica, la cosca “vincente” dei 2.297 consiglieri di Obama, ha convinto la Casa Bianca che, scendendo a patti con l’Iran, si sarebbe, in un colpo solo, risolto il contenzioso nucleare con gli ayatollah, spianata la strada a un accordo sulla Siria e, miracolo!, gettata al Qaida (sunnita) nel bidone della spazzatura. Elementare? Fin troppo, forse. Dato che all’Arabia Saudita, nemico storico e acerrimo dei dirimpettai ayatollah, è saltato il ticchio. A Riad non hanno gradito la “disinvoltura”, diciamo così, con cui Obama ha zompato fulmineamente al di qua e al di là della barricata. Se il giorno prima si parlava di sotterrare di bombe Assad, il giorno dopo il “contrordine compagni” ha, praticamente, girato sottosopra il quadro siriano, e gli “amati ribelli”, infestati di terroristi di al Qaida, sono diventati il nemico pubblico numero uno. Ora Obama ha pensato di farsi un viaggetto fino alla Penisola arabica, così, tanto per tastare il terreno. Con circospezione. Ma a Riad non perdono tempo. I sauditi, per esorcizzare la minaccia di Teheran (divenuta, ormai, la loro nevrosi ossessiva) sono andati a bussare al portone dei giapponesi e a quello degli indiani, offrendo basi navali nel Golfo Persico e, persino, nel Mar Rosso. Dopo aver chiesto “permesso” ai pakistani (i cui rapporti con New Delhi sono gelidi), l’Arabia ha proposto agli indiani di insediarsi nel porto militare situato accanto al terminale petrolifero di Ras Tanur. Lo stesso discorso finora fatto per i sauditi, vale per l’Egitto, il quale ha progressivamente preso le distanze da Obama, riavvicinandosi di gran corsa ai vecchi amici di Mosca. Il Cairo aveva già chiesto ai russi forniture militari di “ultima generazione”. In particolare, aerei da caccia Mig 29, elicotteri da combattimento e missili superficie-superficie a lungo raggio. Adesso si aggiunge un’ultima gentile petizione, che riguarda batterie di sofisticatissimi vettori anti-aerei S300. I sauditi, dal canto loro, hanno già fatto shopping nei supermercati delle armi indiani, giapponesi, pakistani (chiedendo bombe atomiche in “leasing”) e si accingono, come detto, a fare la fila alla cassa dei cinesi. La nostra impressione è che se Obama vorrà veramente riconquistare gli sceicchi dovrà bussare con i piedi. Ergo: presentarsi con le mani piene di missili, navi e aerei di ogni tipo e chiedere permesso.
Partnership strategica
fra i sauditi e la Cina?
di Piero Orteca
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