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Afghanistan, a chi
servono le elezioni
“democratiche”?


di Piero Orteca

 L’Afghanistan? Negli ultimi anni sembrava quasi scomparso dalle cronache. Si continuava a morire come se fosse la cosa più normale del mondo, mentre gli americani (e gli altri occidentali) preparavano le valigie. Ieri è tornato a far notizia, perché si è votato per eleggere il successore del chiacchieratissimo presidente Karzai, in quelle che potremmo definire, forse un po’ pomposamente, le prime elezioni “democratiche” dopo tredici, sanguinosissimi, anni di guerra. Tutto a posto, dunque? Proprio per niente. I talebani, cacciati dalla porta, sono rientrati, alla grande, dalla finestra e ormai aspettano che maturino le pere, cioè che gli americani smammino, per tornare a Kabul e far ballare pupi e tavolini, facendo vedere chi comanda veramente. Insomma, mentre i fondamentalisti pashtun si leccano i baffi, come una tribù di gatti davanti a una padella che frigge il pesce, alla Casa Bianca aspettano con impazienza che da queste elezioni esca un simulacro di democrazia, uno scafandro di perbenismo occidentale da appiccicare con lo scotch sul corpo martoriato di un Paese andato ormai fuori di testa. Certo, anche a noi piacerebbe che l’Afghanistan diventasse un modello nel campo molto complicato dei diritti umani e che le sue istituzioni fossero lo specchio incontaminato dei principi democratici. Ma la politica è l’arte delle cose possibili, non di quelle desiderabili: ergo, prima di cantare vittoria e di esaltare la “normalizzazione” di un Paese che, in tutta la sua storia, normale non lo è mai stato, aspettiamo e vediamo, “wait and see” come dicono a Washington. Anche perché loro (gli americani) laggiù di cose ne hanno viste di tutti i colori e quanto ad “aspettare” (di andarsene) lo fanno, stirando il collo, da una vita. Nuvoloni neri come la pece, pesanti piogge e lunghe file ai seggi hanno accompagnato le operazioni di voto, che hanno visto partecipare anche molte donne. Quasi 400 mila tra poliziotti e soldati, armati fino ai denti, hanno cercato di garantire l’ordine, in un crescente nervosismo, per consentire a 12 milioni (sulla carta) di afghani di recarsi alle urne senza saltare in aria con tutti i baracchini elettorali. L’altro giorno, per la cronaca, in un confuso incidente, sono rimaste uccise una fotografa tedesca e una reporter canadese. Ieri i morti sono stati 19, tra cui 12 talebani. Nelle città pare che i controlli abbiano funzionato fino a un certo punto (la chiusura dei seggi è stata posticipata di un’ora). Il Ministero dell’Interno, la sede della Commissione indipendente elettorale e l’Hotel Sirena di Kabul sono stati tutti attaccati dai guerriglieri. Nelle campagne, poi, specie a est, i talebaripetutamente. Secondo la britannica BBC, oltre alla violenza, il vero convitato di pietra di queste elezioni è l’imbroglio. Ci sono segnalazioni in arrivo da Kandahar (sud) che riferiscono di modi molto spicci e anomali usati dalla polizia, che avrebbe preso votanti e “osservatori” a pedatone nel sedere. Secondo gli inglesi, il timore è che gli stessi poliziotti si sostituiscano agli elettori, aprendo e chiudendo le urne a piacimento per favorire i loro “patrons”. La Commissione elettorale ha impedito l’apertura del 10% dei seggi “a causa dell’alto rischio di attentati”, mentre a Herat (ovest) e Kapisa (nord-est) la situazione resta confusa. Giungono, inoltre, report su seggi che nemmeno hanno aperto “per mancanza di materiale elettorale” o perché le schede sono sparite. Altre voci parlano, addirittura, di stazioni di voto “pirata”, controllate da truffatori che poi riciclerebbero le preferenze, mentre (al peggio non c’è mai fine) sarebbe stata accertata la presenza di un numero imponente di schede (false) che supererebbero (e di molto) il totale dei potenziali elettori registrati. La “timeline” prevede che lo spoglio dovrebbe durare, tra annessi e connessi, fino al 25 aprile. Se nessuno dei candidati raggiungerà il 50% dei consensi, si andrà al ballottaggio tra i primi due il 28 maggio. Comunque, queste elezioni, secondo molti osservatori, al di là di brogli, truffe e forzature, hanno una certa importanza, perché da esse dovrebbe scaturire una quadro di riferimento politico più affidabile entro cui muoversi per delineare la transizione. Quando, cioè, tutto il potere e gli apparati di sicurezza passeranno in mani afghane. E proprio qui, se vogliamo, casca l’asino. Obama ha capito l’antifona da un pezzo e cerca di cadere all’impiedi, lavorando sotto traccia per un’intesa con i talebani per evitare che l’Asia Centrale ridiventi il santuario di al Qaida e di tutti i “barbudos” tagliagole fondamentalisti islamici del pianeta. Più facile a dirsi che a farsi. In Afghanistan la casa brucia e gli americani, tanto per (non) cambiare, finora hanno confuso il bugliolo dell’acqua con quello della benzina, come testimoniano, in modo irriverente, i file “segretissimi” (evidentemente solo per Pulcinella) pubblicati a suo tempo da Wikileaks. Nei 90 mila documenti dati in pasto all’opinione pubblica, c’era erba per cento cavalli e ne venivano fuori di cotte e di crude. Da quel momento, Obama ha cercato disperatamente di trovare una “exit strategy” che gli consentisse di sbaraccare senza perdere la faccia. Ha fatto pressioni su Karzai mattina, mezzogiorno e sera, perché desse una verniciata di presentabilità al suo regime, soprattutto sul versante della corruzione; ha accelerato i tempi per indottrinare e rendere autosufficiente l’esercito e le forze di polizia afghane; ha speso milioni di dollari in aiuti a pioggia per ingraziarsi i “signori della guerra”, che spuntano come funghi dietro ogni curva; ha girato col cappello in mano al Congresso per convincere deputati e senatori, sempre più riottosi, a sostenere finanziariamente il salasso di questo secondo Vietnam e, last but not least, ancora oggi taglia, cuce, incolla e mette pezze, per evitare che Pakistan e India si scannino. Risultati? Pochini. A questo punto Obama ha fatto una bella pensata: facciamo fare le elezioni, dimostriamo che la democrazia funziona (per chi ci crede) anche in Afghanistan e, subito dopo, scappiamo senza voltarci. Non so se salveremo l’onore, ma almeno le terga le salviamo di sicuro, alla faccia di tutte le “dottrine” sull’esportazione della civiltà (o presunta tale) dell’Occidente. A questo discorso, forse non proprio epico o eroico, ma comunque scaltro, vanno aggiunte le riflessioni sul Pakistan. Il britannico Guardian ha rivelato che ben 180 file del malloppone sbattuto su internet da Wikileaks riguardano le accuse rivolte all’ISI, i servizi segreti pakistani, che avrebbero giocato (e forse lo fanno ancora) con due mazzi di carte, da un lato mostrandosi fedeli alleati degli americani e, dall’altro, abbuffando di armi e notizie “sensibili” gli scannapecore talebani. Tra le amenità addebitate agli spioni pakistani ci sono gli addestramenti dei kamikaze, il contrabbando di missili terra-aria da offrire come grazioso omaggio ai terroristi, complotti per assassinare il presidente afghano Karzai e, persino, il tentativo di avvelenare centinaia di fusti di birra destinati agli occidentali. Manovra che avrebbe colpito principalmente inglesi e americani, i quali, come è noto, le cassette di birra le tengono sotto il letto. Gli spifferi di Wikileaks, insomma, non solo hanno reso tutto l’affaire tragicomico, ma obbligano anche a ripensare la “ratio” di una missione che ormai non ha più né capo né coda. Per questo le elezioni di ieri in Afghanistan hanno un’importanza fondamentale (per la democrazia, ma soprattutto per gli Usa): sono la prima stazione che porterà il treno carico di truppe americane dritto filato fino a Washington. A duecento all’ora.

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