Si scrive Ucraina, ma, in trasparenza, si possono leggere, nell’ordine, le parole “gas”, “petrolio”, “interessi strategici” e tanti altri annessi e connessi, con i diritti umani a chiudere la fila. Buoni ultimi. Per essere chiari, anche la crisi scoppiata (o fatta scoppiare?) dalle parti di Kiev obbedisce a logiche che poco hanno a che spartire con i più nobili sentimenti (se mai ce ne sono stati) della politica internazionale. No, anche laggiù si sta giocando una partita molto sporca, dove il più pulito ha la rogna. Molto in sintesi possiamo dire che: 1) Il contenzioso ucraino è vecchio e si lega, quasi con una connessione “a rete”, ad altre aree di crisi. 2) Gratta gratta, sotto la vernice dei “buoni” e dei “cattivi”, spuntano interessi divergenti tra le grandi potenze e all’interno degli stessi “blocchi” di alleanza. 3) Dietro il paravento della diplomazia ufficiale si muove tutta un’architettura di ricatti e contro-ricatti, da cui dipendono gli sviluppi sullo scacchiere euro-afro-asiatico. Da questo punto di vista, l’Ucraina è un po’ un campo neutro, dove Usa e Russia giocano una partita ancora più vasta, che interessa l’intero scenario globale. 4) Il pericolo è che muovendo la singola tessera regionale si finisca col mandare per aria tutto il traballante mosaico delle relazioni internazionali. 5) Pensierino per tutti i perbenisti in servizio permanente effettivo: in queste faccenduole torto e ragione non si tagliano in due, con un coltello. Ma l’identificazione di responsabilità e obiettivi è ben più sofisticata. Cominciamo con la cronaca. Ieri gruppi armati (filo-russi) hanno assaltato una stazione di polizia e la sede dei servizi di sicurezza a Sloviansk, nell’est dell’Ucraina. La stessa cosa si è verificata nei giorni scorsi a Donetsk, dove i manifestanti (definiti dal governo di Kiev “terroristi”) chiedevano un referendum, sul modello della Crimea, “per tornare alla madre patria” (la Russia). Stati Uniti ed Europa hanno subito imposto sanzioni. Ma hanno la coda di paglia e spieghiamo molto semplicemente perché. Il principio dell’autodeterminazione, se è sacrosanto, deve valere per tutti o per nessuno e non può essere invocato e applicato a seconda di come si alzi dal letto, ogni mattina, Barack Obama. E qui torniamo a esprimere un concetto su cui abbiamo già scritto, ma che vogliamo richiamare per ribadirne tutta l’importanza. “Attenzione –diceva un grande sociologo e politologo come Ralf Dahrendorf – perché a inseguire fino alle estreme conseguenze il principio di autodeterminazione ci si può perdere in un ginepraio”. Nel senso, aggiungiamo noi, che, come in un gioco di scatole cinesi (o di matrjoske, le bambole russe, visto di cosa stiamo parlando) ogni minoranza (da tutelare) può essere “maggioranza di un’altra minoranza” (anche quest’ultima, è ovvio, da tutelare). La “madre di tutte le crisi” attuali, vede l’Ucraina, nazione formalmente indipendente, alle prese con una fortissima minoranza di russi. In pratica, mezzo Paese (tutta l’area sinistra, che va da Leopoli fino a oltre Kiev) è pro-occidentale e il terzo restante è filo-russo. Non basta. Parata nel mezzo c’è la pietra dello scandalo: la Crimea. Questa splendida penisola è abitata, a schiacciante maggioranza, dai russi. Putin tiene trincerata in quei porti la sua Flotta del Mar Nero, pronto a sguinzagliarla nel Mediterraneo. Per questo gli americani, che sui diritti umani sono strabici, in Ucraina stanno combinando (dietro le quinte, è ovvio) un macello diplomatico. Vogliono tirare l’Ucraina, strategicamente, dalla loro parte. Per ora, con il referendum in Crimea e la successiva annessione, il primo round l’ha vinto Putin. L’Unione Europea, che sui “diritti” degli altri si muove anche lei a zig-zag, ha altri obiettivi. La Germania della Merkel (e ti pareva!) vede l’Ucraina come un bambino guarda la vetrina di una pasticceria. Nonostante i 250 mila morti sulla coscienza (guerra civile jugoslava) ai tedeschi non sembra vero di fiondarsi dalle parti di Kiev, portandosi appresso, banche, contratti stramiliardari e pure i carrettini per vendersi i würstel. Ma il vero “piatto” della mano di poker tra biscazzieri (altro che diritti umani!) riguarda l’energia. Per questo la Merkel, al di là delle dichiarazioni di facciata (l’ultima è di un paio di giorni fa) gioca a fare la mediatrice “calmierando” le reazioni dell’Europa, che con Putin è molto più morbida dell’America. Recentemente, in un “fuori onda” reso pubblico sul web, un funzionario del Dipartimento di Stato Usa ha espresso le proprie sincere considerazioni sull’operato del Vecchio Continente in Ucraina: “Ma che vadano tutti a farsi f….”. Per la serie “Oxford e la diplomazia (questa sconosciuta)”. Insomma, ci siamo capiti. E, soprattutto abbiamo capito che gli americani, sulla vicenda, hanno opinioni (e interessi) diversi da quelli che abbiamo noi, o, almeno di quelli che ha Frau Merkel. La quale non vuole tirare troppo la corda con Putin per non vedersi tagliate le forniture di gas e per continuare a parlare di “pace”, ma soprattutto, a dirla tutta, di “business”. Dalle banche, all’energia alle grandi infrastrutture. Alla faccia di quei babbioni degli americani e di quei poveretti degli altri “eurocompari” (ma sarebbe meglio parlare di “eurocomparse”) come gli italiani, legati mani e piedi al carro di Berlino quando c’è da pagare il biglietto del cinema. Tanto, poi il film se lo vedono solo la Canciellerona e i suoi compatrioti. Intanto, un’ondata di simpatia filo-russa scuote la Germania. Parole e musica sono nientemeno che dell’autorevole rivista “Spiegel”, che in un articolo con un titolo che è tutto un programma (“Il problema della simpatia: la Germania è forse un Paese di russofili?) elenca le prese di posizione a favore della Russia. Come quella della leader femminista Alice Schwarzer, dell’esponente CDU Armin Laschet e dello stesso portavoce della Merkel, Philipp Missfelder. Tutti tifosi di Putin. Der Spiegel parla di una specie di “Sindrome di Stoccolma” (un legame quasi morboso che finisce col legare i sequestrati ai sequestratori) per spiegare quello che non ti aspetti. Certo, gli analisti tedeschi non sono fessi: e nel mazzo delle ragioni che motivano la simpatia per il Cremlino ci mettono un complesso di colpa nazionale (la seconda guerra mondiale), la nevrosi ossessiva del “babau” a Est, che potrebbe minacciare la loro sicurezza nazionale (“morire per Kiev? Ma siete matti…) e, last but not least, il “business” a tutto tondo di cui parlavamo prima. Secondo gli analisti israeliani, la strategia di Mosca, in questo momento, non è certo quella di scatenare un‘invasione, ma è invece molto più orientata a utilizzare le pressioni militari per ottenere una nuova Costituzione da Kiev. Un documento che accordi ampia autonomia agli ucraini-russi e che, soprattutto, vera pietra dello scandalo, impedisca una formale adesione dell’Ucraina alla Nato. Dal canto suo, il governo di Kiev continua a dipingere a tinte fosche la situazione, nella speranza di accelerare l’arrivo dei 33 miliardi di dollari di aiuti promessi dall’Occidente. Il problema vero, però, è strategico. L’Ucraina oggi fa parte di una macro-area di crisi che arriva fino al Medio Oriente passando per il Golfo Persico. I russi hanno legato la soluzione della questione ucraina ad altre “rogne”, come quella iraniana. Insomma, se Obama vuole campare in pace con gli ayatollah deve pagare un prezzo al Cremlino in Ucraina. Con una avvertenza, che arriva dagli analisti di war-games israeliani: per quanto Putin, al di là della retorica, finora si sia dimostrato un leader accorto, se qualcuno dovesse gettare il classico cerino nel deposito della benzina ucraino nemmeno lui, forse, riuscirebbe a evitare un’esplosione di dimensioni apocalittiche.
Ecco i veri motivi
della crisi in Ucraina
di Piero Orteca
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