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Irak, al voto per
la “democrazia”


di Piero Orteca

Se la politica estera, come altre cose della vita, va giudicata solo ed esclusivamente dai risultati, allora quella pianificata ed attuata in Irak dagli americani (e dalla mandria degli occidentali che si sono tirati dietro) si è rivelata una catastrofe. A Baghdad si è votato, nei giorni scorsi (risultati fra un mese), dopo una guerra combattuta a capocchia, diverse centinaia di migliaia di morti e le violente scosse sismico-diplomatiche che hanno capovolto gli equilibri della regione (a cominciare dalle alleanze). Possiamo dire che, paradossalmente, forse si stava meglio quando si stava peggio. Intendiamoci, quella nostra non è certo una difesa d’ufficio di Saddam Hussein, un dittatore sanguinario e abbastanza fuori di testa. Ma…ma est modus in rebus. Cioè, mettendo da parte il “latinorum”, se la pezza è peggio del buco che avrebbe dovuto tappare, allora stiamo freschi. I premi Nobel che facevano parte del caravanserraglio di Bush-figlio, a cominciare da Dick Cheney, ne hanno combinate più di Giufà. E anche se, come dicono dalle nostre parti, Carnevale (o Pulcinella, fate voi) fa ridere, ma ancora più colpevole è chi gli sta appresso (come certi governi europei), allora è tempo di tirare le somme. Andiamo a passare in rassegna i risultati della Dottrina delle guerre “umanitarie” ( s e mbra una macabra freddura all’inglese) e della cosiddetta “esportazione della democrazia” che, ricordiamolo ai deboli di memoria, si erano inventati “S e t t ebellezze” Clinton (parliamo di Bill, è ovvio, visto cotanto nickname) e i suoi lungimiranti adviser del Council on Foreign Relations. Leslie Gelb in testa. Dunque, partiamo dalla fine, la “tripartizione” i r a k ena è miseramente fallita. La programmata spartizione del Paese in aree d’i nfluenza sunnita, sciita e curda sembra un carro armato incollato con lo scotch: appena si muove volano da tutte le parti cingoli, pistoni e bielle. E i cannoni finiscono in testa ai “difensori” d e lla democrazia. Al Qaida: non è un caso se Bush-padre (che possedeva qualche etto di cervello più del figlio) aveva accuratamente evitato di liquidare Saddam. Sapeva che, fino a quando c’era lui, i nipotini di bin Laden si potevano solo attaccare al tram. Oggi, invece, i qaidisti prosperano come non mai in tutto l’Irak, controllano intere regioni del Paese e le usano come basi per colpire il Medio Oriente. Insomma, per fare un esempio, è come aver cercato di debellare nugoli di zanzare spargendo tonnellate di Ddt, essersi sciroppati i mortiferi effetti collaterali, per poi ritrovarsi, alla fin della tenzone, insetti grossi quanto elicotteri. Qualcuno ha sbagliato i conti. Di assai. E così torniamo alla notizia di cronaca, cioè le elezioni, che sono l’occasione per far ribattere la lingua dove il dente duole (anzi, è proprio cariato). In parole povere parliamo di un Irak che il povero Obama si sogna, una notte sì e l’altra pure, manco fosse una vigilia di Halloween che dura tutto l’anno. Il 30 aprile si è andati alle urne tra un tripudio di raffiche di kalashnikov e di esplosioni al plastico. Se questa è la democrazia immaginata alla Casa Bianca, immaginatevi il resto. Il primo ministro, Nouri al Maliki (sciita), chiede un terzo mandato presentandosi come l’unico candidato capace di sconfiggere “i terroristi di al Qaida” (che ai tempi di Saddam, come abbiamo già detto, stavano tutti tappati nei cantinati). Ma sunniti e curdi da quest’orecchio non ci sentono e assicurano che se al-Maliki (sponsorizzato da Obama) dovesse essere rieletto, l’Irak verrebbe messo a ferro e fuoco (ma perché, finora cosa è stato?) e la “carta” c ostituzionale della fragilissima “tripartizione” finirebbe in coriandoli. Con le ripercussioni che potete immaginare in tutto il Medio Oriente (che di rogne ne ha già una montagna di suo) e nel Golfo Persico, dove entrerebbero in rotta di collisione gli sceicchi sauditi e gli ayatollah iraniani. Tra l’altro, a complicare le cose, i tre blocchi non sono poi tanto omogenei. L’ultima volta gli sciiti se le sono date di santa ragione e Maliki ha dovuto sudare sette camicie (nel caso specifico sette barracani) per mettere tutti d’accordo, prima che finisse a bottigliate in testa tra “c o n s a n g u inei”. Questa volta Maliki si dice sicuro di vincere (ma chi glielo ha garantito, Obama?) facendo capire che le elezioni sono quasi una formalità. Alla faccia dei sacri principi democratici. Sì, perché ai gonzi che ancora credono a tutte le favolette finora raccontate, bisogna spiegare che Maliki “deve” vincere, fa parte degli accordi raggiunti tra Iran e Stati Uniti per spartirsi la regione in aree d’influenza. Capito, adesso, perché i sauditi sono su tutte le furie e gli egiziani fanno la fila dietro i portoni del Cremlino? Per non parlare della Siria, dove, dopo 120 mila morti, gli americani confessano con la coda tra le gambe: “Sorry, abbiamo scherzato. Anzi, ci siamo sbagliati”. Nazioni Unite e Stati Uniti (questi ultimi da lontano, perché sono scappati a gambe levate tre anni fa), hanno monitorato il voto, in cui, per garantire l’ordine pubblico, è stato impegnato tutto l’e s e rcito irakeno. Blindati compresi. Le cose, dicono al Palazzo di Vetro, sono andate di lusso: solo (per ora) 14 morti e una quarantina di attentati. Bazzecole se pensate che, negli ultimi mesi, le vittime (civili e militari) sono state migliaia e, in due giorni di pre-voto, “appena” 160. Dopo ben 11 anni di “v e rbo democratico”, aggiungiamo noi. Il Paese è preda di una dilagante corruzione ed è gestito alla carlona. I servizi pubblici non funzionano e la “sicurezza” fa il paio con la storiella di quel tale che ogni mattina, prima di uscire da casa, faceva testamento. La maggioranza sciita è sul piede di guerra (in tutti i sensi) ed accusa il suo “patron” Maliki di essersi venduto ai sunniti pur di restare, attaccato col mastice, alla poltrona di premier. Dal canto loro, invece, molti sunniti pensano che sia meglio mettere una croce sugli avversari, anziché sulla scheda elettorale. Infine, i curdi. Sono asserragliati nel nord del Paese, pronti a scendere a patti. O a sparare, non fa tanta differenza, sul vincitore. Dipende dalle percentuali. Di “autonomia” e di quelle, più prosaicamente parlando, che si possono grattare dall’estrazione del petrolio a Mosul e Kirkuk. Insomma, tutto si può “aggiustare” coi dollari. E ci volevano una guerra, mille guerriglie e un massacro senza fine per capirlo?

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