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Irak, una guerra
tra sciiti e sunniti


di Piero Orteca

 L’avevamo scritto in tempi non sospetti e oggi lo ribadiamo: la politica estera Usa e quella dell’Europa, che gli ha tenuto bordone, hanno posto le premesse per una specie di guerra civile religiosa tra sunniti e sciiti, rendendo il Medio Oriente attuale una vera e propria polveriera. L’ultima tessera del mosaico che è andata per aria è l’Irak, dove i fondamentalisti sunniti dell’Isis stanno facendo il bello e il cattivo tempo. Naturalmente, gli sciiti non stanno a guardare, e si stanno organizzando (con il sostegno dell’Iran e la benedizione di Obama) per rispondere colpo su colpo. In questi giorni, le milizie “Shia” agli ordini di Moqtada al-Sadr hanno sfilato in parata militare a Baghdad, tanto per far capire di cosa stiamo parlando. Certo, i qaidisti non si impressionano e, anzi, continuano ad andare all’attacco. L’ultima conquista è la roccaforte di Qaim, al confine con la Siria, una battaglia che è costata al governo di al-Maliki almeno trenta morti. La contrapposizione sunnito- sciita dentro l’Islam ha a che fare con la dottrina, i rituali, la teologia e la stessa organizzazione religiosa. A questo aggiungete le differenze etniche, storiche e culturali e il gioco è fatto. Naturalmente è già cominciato il palleggiamento delle responsabilità e la Casa Bianca sembra il bersaglio privilegiato delle critiche. In molti rinfacciano al presidente americano una disinvolta linea strategica in Siria, con Assad passato dall’essere il nemico pubblico numero uno fino a diventare il vero e proprio salvatore della patria (contro al Qaida). Obama replica dicendo che gli Stati Uniti hanno continuato a combattere Assad. Almeno per chi ci crede. Aggiungendo sconsolatamente, in un’intervista alla CBS, che non è certo con milizie “formate da dentisti, artigiani e coltivatori diretti” che si può sperare di combattere da un lato Assad e dall’altro i ribelli jihadisti. Comunque, vista la mala parata, gli americani stanno spedendo in Irak 300 consiglieri militari, per cercare di metterci una pezza. Anche se i raid aerei invocati da Baghdad contro i ribelli, ancora non si sono visti. Fonti “bene informate” sostengono che Barack Obama sia letteralmente inferocito col premier sciita Maliki, ritenuto colpevole di avere portato la componente sunnita della popolazione irakena sull’orlo di una crisi di nervi. Naturalmente, la guerra civile sta causando una catastrofe umanitaria di proporzioni bibliche. Secondo le Nazioni Unite i profughi irakeni nell’ultimo anno avrebbero superato il milione. Certo, a osservare da vicino le mosse dell’Isis non è difficile capire dove voglia andare a parare: il controllo degli snodi di confine tra Siria e Irak consentirà ai qaidisti di spedire armi ed esplosivi in molte aree del Medio Oriente. Attualmente la loro forza viene stimata in 10 mila agguerriti miliziani, fiancheggiati da ex ufficiali di Saddam e guidati da un terrorista (al Baghdadi) che era nelle patri galere americane, prima di essere liberato con mille scuse. Intanto, è giunto in Irak, spedito dal presidente Rohani, il generale iraniano Qassem Soleimani, comandante delle Brigate Al Qods. Ha il compito di riorganizzare la difesa della capitale, come ha già fatto, efficacemente, a Damasco. Dal canto loro, gli americani hanno dato via libera per fornire al debole governo irakeno i micidiali elicotteri da attacco “Apaches” e i missili aria-terra “Hellfire”, che, metteteci la firma, prima o dopo finiranno anche nelle mani degli ayatollah. A completare la frittata, si comincia a parlare di un’intesa segreta tra Obama e Alì Khamenei, la Guida Suprema, per un intervento diretto di truppe iraniane, cosa che, come abbiamo già detto, farebbe saltare il ticchio all’Arabia Saudita e a tutti i sunniti del Golfo Persico. Il vero problema di tutto l’a ffaire è che nessuno si aspettava i trionfi militari dell’Isis. Né gli americani e manco gli iraniani. L’esercito irakeno, addestrato dall’Us Army, si è praticamente squagliato al primo colpo di marmitta, e i fondamentalisti islamici sono affondati come il coltello nel burro. Insomma, un vero scappa- scappa. La rotta di Mosul ha fatto cadere nelle mani dell’Isis armi e munizioni, precipitosamente abbandonate dall’esercito irakeno nella fretta di salvare la pellaccia. In pratica, non è chiaro chi sia stato a lanciare l’ordine del “si salvi chi può”, anche se gli effetti sono stati devastanti, con centinaia di cannoni, carri armati e missili graziosamente consegnati ai tagliagole qaidisti. Tra le altre cose, visto che l’Isis ha tagliato ai governativi la ritirata verso ovest, Maliki ha dovuto chiedere agli odiati curdi il “favore” di ospitare temporaneamente le truppe di Baghdad in fuga. Certo, gli americani hanno poco da scialare. Dopo otto anni di guerre, quasi 5 mila morti e una spesa, sull’unghia, di quasi due trilioni di dollari, hanno praticamente perso, in un paio di settimane, quanto avevano faticosamente guadagnato. Tra le altre cose, non va trascurata la strategia dell’Isis di andare a controllare la marca di confine con l’Iran (provincia di Diyala), allo scopo di utilizzare l’Irak in funzione di testa di ponte per raid terroristici contro gli ayatollah. Come avviene già sfruttando le posizioni attorno a Samarra e a Bakuba. Stesso discorso dev’essere fatto per Falluja e Anbar, per quanto riguarda i check-point con Siria e Giordania, saldamente nelle mani di al Qaida. Gli americani stanno cercando, disperatamente, di creare un’alleanza improvvisata tra sciiti, curdi e sunniti “che si fanno parlare”. Più facile a dirsi che a farsi. L’appello del ministro degli Esteri irakeno, Hoshyar Zebari, è praticamente caduto nel vuoto. Mentre gli analisti pensano che sunniti e curdi abbiano più interesse a siglare intese separate con i qaidisti dell’Isis, che hanno già dimostrato di saper gestire situazioni militari complesse, come quelle siriane di ar-Raqqa e Deir ez-Zour. Parlando, ultimamente, all’Accademia militare di West Point, Obama ha scelto di non dedicare manco una virgola alla rogna irakena, dimostrando, secondo molti analisti, di voler guadagnare tempo, evitando di prendere impegni precisi. Largo spazio, invece, il presidente ha voluto dedicare alla lotta al terrorismo, dimostrando quale sia la vera priorità per la Casa Bianca. Evitare rovinosi attentati, anche a costo di passare un bel colpo di spugna sull’ultimo anno di politica estera degli Stati Uniti. Che è stato tutto, meno che un periodo strategicamente coerente.3

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