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Medio Oriente, salta
il Piano Clinton


Di Piero Orteca

    Novembre 2012: americani ed egiziani filavano ancora d’amore e d’accordo, nononostate tutte le corbellerie combinate da Casa Bianca e soci sul versante della Primavera Araba. Anzi, il capo dei Fratelli Musulmani, Mohammed Morsi, si era fatto venire lo scrupolo di studiare un nuovo piano “di riallineamento” per i Medio Oriente, ascoltando i suggerimenti di Mrs. Dipartimento di Stato. Del mazzo avrebbero dovuto far parte, la Turchia, che non sa più a che santo votarsi per contare di più, il Qatar, gli estremisti di Hamas e udite udite, anche Israele,che avrebbe dovuto guardare le spalle all’improbabile compagnia. Il disegno del duo Obama-Clinton non era di altissima strategia, mirava a fare dei Fratelli Musulmani il cane da guardia, per fare stare a cuccia, i fondamentalisti islamici sunniti e per tenere rintanati in un angolo gli sciiti in libera uscita, da hezbollah alle milizie pasdaran in arrivo dall’Iran. Ma, si sa, i nipotini di Bin Laden riescono a giocare benissimo d’anticipo. Cosí, senza aspettare le tresche della Clinton, hanno deciso di portare la guerra in ogni borgata della Libia, scatenando un’offensiva nel più puro stile talebano. Per far capire alla Casa Bianca il “conquibus” i tagliagole qaidisi hanno ammazzare l’ambasciatore Usa A Bengasi e altri tre funzionari della Cia. La “signora” ha capito che la “finanza creativa” nella regione è un esperimento che, probabilmente, lascia molto a desiderare. Moto meglio, insomma, lasciare Obama a sbrigarsela sperando che, qualche volta, ne imbrocchi una giusta. Obama ha un problema, e di quelli grossi, nell’attuazione del suo piano di “volemose bene” con gli ex acerrimi nemici persiani: oltre ai sunniti del Golfo si è messo di traverso anche Israele. Per questo ha incaricato il fido scudiero, John Kerry, di ammorbidire la controparte. L’obiettivo della Casa Bianca è quello di offrire a Netanyahu un accordo complessivo (e blindato) coi palestinesi, in modo da fargli ingurgitare il rospo iraniano. Per la verità, i giri di valzer di Obama hanno fatto perdere da lunga pezza il sonno al governo di Gerusalemme, che manda segnali di nervosismo. A metà gennaio, il Segretario di Stato Usa dovrebbe presentarsi in Medio Oriente, come il quarto dei Re Magi, con uno scrigno di proposte. In particolare, con alcuni punti, ancora “secretati”, che siamo in grado di anticiparvi in anteprima e che ricalcano lo schema di accordo che era stato abbozzato dal premier Ehud Olmert nel 2008. 1) Israele potrà annettersi il 6,8% della West Bank (Cis-Giordania), ma dovrà cedere il 5,5% del suo territorio “a macchie di leopardo. 2) La strada di collegamento tra Gaza e la West Bank “resterà sotto sovranità israeliana, ma controllo palestinese”. Si pensa anche a una ferrovia Gaza- Hebron che sarà offerta e costruita dagli Usa. Ma Abbas ha già detto che il capolinea dovrà essere Ramallah. Un altro asse viario collegherà quest’ultima città con Betlemme, by-passando Gerusalemme Est. Queste infrastrutture occuperanno l’1% del territorio israeliano. Il “contributo” che Netanyahu dovrà offrire scenderà, di conseguenza, al 4,5% dell’intera superficie nazionale. 3) Gerusalemme Est sarà divisa seguendo il vecchio Piano Clinton. La parte più antica verrà amministrata da una commissione che, oltre alle parti in causa, sarà composta da americani, giordani e sauditi. 4) Per i rifugiati valgono le guide-lines proposte nel 2000 a Camp David dal presidente Clinton, ma rigettate da Arafat. Una Fondazione internazionale si occuperà dell’eventuale rientro degli emigrati palestinesi in Canada e Australia. Un’altra piccola frazione tornerà in Israele con un meccanismo di riunificazioni familiari. 5) Un numero limitato di coloni israeliani (circa 10 mila) dovrà evacuare la Valle del Giordano e riposizionarsi in aree (“blocchi”) che saranno difese da postazioni militari, con corridoi speciali per garantire il transito verso Israele. Lo spazio aereo della West Bank e quello di Gaza sarà condiviso da Gerusalemme e dai palestinesi. 6) Le tasse continueranno a essere incassate dagli israeliani e il gettito sarà “girato” ai palestinesi. Controlli doganali saranno esercitati sulle merci in transito verso la West Bank e provenienti dai porti di Haifa e Ashdod. 7) In totale, oltre a quelli della Valle del Giordano, anche l’80% dei coloni israeliani che vivono nel resto della West Bank sarà trasferito nei nuovi insediamenti di cui al punto 5. Il restante 20% (circa 80 mila persone) potrà decidere se tornare in Israele o rimanere, ma sotto sovranità palestinese. Calendario: il leader palestinese, Abu Mazen, sarebbe pronto a concedere tre anni di tempo agli israeliani per mettere a posto tutte le tessere del complicatissimo mosaico. A cominciare dai massicci riposizionamenti dei coloni. Dal canto suo, John Kerry, interpretando i desideri di Obama, ha voluto ribadire ai due team dei negoziatori che il tempo delle parole è ormai finito. Ci vogliono i fatti. Proprio per questo, ha chiesto che tutte le osservazioni e gli eventuali suggerimenti siano fatti per iscritto. In modo che ognuno si assuma le sue responsabilità. Cioè, quello che finora è mancato. Il muro di pietra contro cui gli israeliani sbattono la testa è la netta chiusura di Hamas sul riconoscimento dello Stato con la Stella di David. D’altro canto, Obama non può e non vuole guastare i rapporti col su migliore alleato in Medio Oriente: cosí l’inghippo resta un puzzle apparentemente senza soluzione. L’affaire iraniano, l’intesa siglata sottobanco tra Stati Uniti e ayatollah sul nucleare e sui futuri assetti della vasta regione che va dall’Asia Centrale al Medieterraneo, continua a condizionare pesantemente tutta la diplomazia mediorientale. A cercare di mettere una pezza sul buco (ma è meglio parlare di voragine) creatosi nei rapport tra Washington e Gerusalemme, questa volta ci ha provato Susan Rice, National Security Adviser di Obama, recatasi in Israele a incontrare il premier Netanyahu. La Rice era accompagnata da Wendy Sherman, Us chief negotiator incaricato di condurre le trattative sui piani nucleari di Teheran. E qui sulla povera Rice si è rovesciata la prima bagnarola di acqua gelata: Netanyahu ha lasciato Sherman fuori dalla porta, rifiutandosi di riceverlo. Fonti “bene informate” riferiscono che i colloqui hanno avuto la stessa calorosità di un ghiacciolo. La Rice ha insistito nel solito ritornello che parla di «pace», di «equilibri nella regione » e della convenienza per Israele «di accettare un dato di fatto» (cioè l’Iran potenza nucleare “civile”). È stato come gridare a uno senza timpani. Gli israeliani si sono fatti una bella risata e hanno replicato affermando che l’unica soluzione esistente è bloccare il nucleare. Più facile a dirsi che a farsi, e intanto i nodi stanno arrivando tutti al pettine e il tempo sembra ormai una clessidra quasi vuota.  

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