Ha fatto una picchiata di quelle che ricordano gli “stukas” tedeschi: la popolarità di Obama è finita sotto i tacchi degli americani e ora bisognerà capirne il perché. Domanda che attende assolutamente risposte chiare e convincenti, soprattutto in casa democratica, nell’anno delle elezioni di “mezzo termine”. D’altro canto, tanto per essere chiari, i numeri sono impietosi e non ammettono distinguo o arrampicate sugli specchi. Il “job approval” del presidente, cioè il gradimento del suo lavoro da parte delle ex folle plaudenti è solo del 40%. Pochino. Con una “forbice” che va dai 37 di Reuters/Ipsos ai 46 di Rasmussen. Con l’avvertenza che la valutazione finale è frutto di due analisi integrate: quella sull’economia (dove gli americani piangono con un occhio) e quella sulla politica estera, dove invece i patrioti a stelle e strisce piangono lacrime amare. Insomma, alla Casa Bianca la vedono nera e cercano di mettere pezze per riguadagnare qualche unghia di consenso. Più facile a dirsi che a farsi, dato che la sofisticata alchimia dei sondaggi non lascia scampo. Rasmussen, per esempio, lasciando perdere il “job approval” si concentra sulla “direzione di marcia” del Paese. Ebbene, per il 67% % degli elettori la locomotiva Usa corre sul binario sbagliato. E nel mazzo metteteci pure quello che volete, dato che in ballo entrano la Riforma sanitaria (per Quinnipiac è un mezzo disastro) e i problemi di budget federale, che stanno facendo incanutire Obama prima del tempo. Certo, il Congresso non se la passa meglio, dato che un formidabile giudizio critico (il 67% dei cittadini pensa che perda tempo chiacchierando a vanvera dei massimi sistemi) pesa sul suo operato. Ma questo, semmai, complica ancor di più le strategie politiche di Obama, che rischia di perdere anche il Senato, cioè capra e cavoli. Perché, con tutto il Congresso di traverso, le indispensabili leggi di spesa andrebbero a farsi strabenedire. Ma il discorso non finisce qui. Quinnipiac, il prestigioso istituto di sondaggi da noi citato prima, ne spara una ancora più grossa, una bomba (ai neutroni) dalla portata elettorale potenzialmente devastante. Dunque, fatti i conti e tirate le somme, il povero Barack sarebbe “il peggiore presidente americano dalla fine della seconda guerra mondiale” per un buon 33% di arrabbiatissimi patrioti degli States. Ed essere riuscito a battere persino Bush-figlio (28%), non è proprio un record di quelli da segnare sulla lavagna. Anzi. Comunque sia, i democratici, dicevamo, cominciano a mettere le mani avanti. Donna Brazile, autorevole strategist del partito del presidente si fascia la testa prima di essersela spaccata. E cita Mark Twain e la sua famosa battuta sulle “bugie e le statistiche”, che, fa sottintendere, spesso sono la stessa cosa. Insomma, come quando si parla dei polli di Trilussa (chi ne mangia quattro e chi li vede col binocolo, alla fine, sulla carta, ne mangiano tutti almeno uno), l’aver messo a Obama le orecchie dell’asino suona a molti analisti una vera forzatura. Anche perché, a volere essere onesti, le frittate a tante uova spesso gliele hanno combinate i suoi “adviser”, incapaci di elaborare politiche (estere o economiche) veramente organiche e coerenti, mentre alcuni suoi collaboratori prima gli hanno girato le spalle e poi lo hanno insaccato di botte come un punching ball. L’ultimo ad aprire il fuoco contro Superbarack è stato nientemeno che l’ex Ministro della Difesa, Robert Gates, autorevole componente della squadra di Obama per due anni. Nel suo libro “Duty: Memoirs of a Secretary at War” (“Il dovere: memorie di un Ministro in Guerra”, edito da Knopf), infatti, Gates dipinge il presidente come una specie di pupo, capace di ordinare una cosa e di pensarne un’altra. Un comandante in capo che, in Afghanistan (e in Irak), mentre i soldati Usa crepavano a migliaia, avrebbe semplicemente applicato una “dottrina” (vecchia quanto il mondo e diffusa tra i politicanti) da “armiamoci e partite”. E chi si è visto si è visto. Il fatto, a raccontarla tutta, è che sull’affaire è già scoppiato un mezzo putiferio. Bob Woodward, il giornalista dello scandalo Watergate, specializzato nel pestare a sangue i presidenti, da Nixon fino a Bush figlio si è messo a fare “nero” anche Obama (quasi una tautologia, detto con tutto il rispetto), esprimendo giudizi “tranchant” sulla sua politica estera e sul suo carisma di “capo” e suscitando reazioni in qualche caso inviperite. Ma andiamo alla “pietra dello scandalo”, cioè il libro lanciato come un laterizio sulla capa del presidente e di tutta la sua Amministrazione. Gates ha un “pedigree” politico bipartisan. È stato, infatti, capo del Pentagono sia col repubblicano Bush che con il democratico Obama, che ha affiancato per due anni durante il primo mandato. Ha messo il piede in due staffe, insomma, con tutti i pro e i contro che ne conseguono. Una caratteristica che risalta da una prima analisi degli stralci delle sue “memorie”, centellinati ad arte, tra amici, parenti e vicini di casa. Woodward ha certosinamente analizzato il laterizio (che “pesa” 640 pagine), mentre il Wall Street Journal ha addirittura pubblicato parte di un capitolo da cui, guarda caso, Obama esce “viola” come una melanzana. In particolare, dicono i bene informati, Gates si toglie dalla scarpe una decina tra sassolini e chiodi a tre punte, che evidentemente si portava appresso da quando aveva lasciato il Pentagono sbattendo (quasi) la porta. Legnate soprattutto per Obama, “democratico” solo a chiacchiere. Nel senso che avrebbe costruito una macchina amministrativa personale, parallela a quella istituzionale, che controlla tutto ciò che si muove. Dove, insomma, adviser, capi-staff, dattilografi e uscieri, contano più dei ministri e dei consiglieri per la sicurezza nazionale. Gates afferma di essere stato più volte “tentato di dimettersi” in disaccordo con il caravanserraglio di personaggi che entravano e uscivano dallo Studio Ovale. L’ex ministro della Difesa punta il dito contro lo staff della Sicurezza Nazionale, impiegati statali che osavano chiamare al telefono persino generali a quattro stelle. Il ministro della Difesa racconta di scontri infuocati, di stracci che volavano ad altezza d’uomo e di piatti in faccia a profusione. Con Hillary Clinton, Segretario di Stato (sulla carta) quasi idrofoba per le imbeccate che le piovevano in testa da funzionari e tirapiedi di mezza tacca presenti nella squadra presidenziale: sai che goduria per Obama.