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Nibali sulle orme
di Gimondi e Pantani

Da 'squalo' rosa a 'squalo' giallo. Vincenzo Nibali è l'eroe dalla faccia pulita che sta restituendo gloria e credibilità al ciclismo italiano che nel 2008 uscì con le ossa rotte dal Tour de France, dopo l'arresto di Riccò e la squalifica di Piepoli per doping. Nibali, al Giro d'Italia dell'anno scorso che stravinse mentre i rivali (allora come oggi) cadevano come birilli e si fermavano, fu il paladino siciliano nella tormenta, sbucando fra i fiocchi che si poggiavano dolcemente sull'asfalto della salita delle Tre Cime di Lavaredo. 

Al Tour è 'rain man', l'uomo della pioggia che nulla però ha da spartire con il Dustin Hoffman diretto da Barry Levinson nell'88. E c'è pure chi lo chiama già 'petit Pantanì', per quel suo modo fantasioso, imprevedibile, irriverente, assolutamente moderno, di leggere la corsa. Lui, 'Enzino' da Messina, preferisce essere chiamato semplicemente 'Squalo dello Stretto', per rimanere fedele alla 'sua' Sicilia, che non ha mai del tutto abbandonato, e alla sua 'amata' Madonna nera di Tindari, che domina dal santuario omonimo il golfo sulla sponda orientale della Sicilia.

 Proprio a quella Madonna, Enzino andava a raccomandarsi dopo le scorribande con il cugino Giuseppe Bongiovanni, che lo seguiva in Vespa sulla strada per il santuario, durante gli allenamenti. Un giorno, entrando nella videoteca del padre Turi disse. "Papà, la Madonna mi ha chiesto la maglia rosa". Un presagio mistico, un sogno che si sarebbe materializzato nel Giro 2010, quando diventò leader per caso, dopo essere stato chiamato al posto di Pellizotti. Cambia la maglia, ma il sogno è sempre lo stesso e si mischia con l'ambizione di entrare definitivamente nella leggenda del ciclismo, 16 anni dopo Pantani e a 49 anni da Gimondi. Un siciliano sul gradino più alto del podio dei Campi Elisi sarebbe davvero un'emozione forte. 

Ma non insostenibile per un Nibali che ha dimostrato di essere leader da subito, da sempre. Suo nonno, da cui ha preso il nome, gli ha sempre detto 'u sciroccu passò, ma sempri cavuru c'è' (il vento di scirosso si è placato, ma continua a far caldo), proprio per fargli capire di non mollare fino all'ultimo metro dell'ultima tappa. Gli avversari si sono sgretolati come colossi d'argilla, come al Giro dell'anno scorso, ma Nibali non può, nè deve illudersi. Porta sulle spalle il peso di un'Italia che cerca il riscatto, di un sud dove il ciclismo ha conservato una propria, dignitosa tradizione (non a caso ospitò i Mondiali su pista e su strada del 1994). "Basta un attimo per cambiare il destino", ha scritto giorni fa su Twitter. 

Ma ci vuole tanta fatica per riscrivere la storia. E Nibali questo lo sa benissimo. "Io penso di essere sullo stesso livello del Giro dell'anno scorso, anzi di avere perso qualche chilo, ma la strada per Parigi è ancora lunga". Nibali ha preparato il Tour sulle Dolomiti, seguendo lo scooter di Paolo Slongo, l'allenatore trevigiano da sempre al suo fianco. Lui gli diceva: "Sono Froome, prova a starmi dietro". Sei ore in bici a velocità altissime, sul San Pellegrino, a 1.900 metri, sprigionando potenze in termini di watt pari a quelle di una gara: dai 200 ai 220 di media. Nibali si è piazzato settimo al Delfinato, aperitivo del Tour, non scoprendosi troppo e adesso che l'occasione per diventare il sesto vincitore della storia di tutte e tre le corse a tappe (Giro, Tour e Vuelta), dopo Eddy Merckx, Bernard Hinault, Jacques Anquetil, Alberto Contador e Felice Gimondi, pensa agli occhi della sua piccola Emma e gli scappa una lacrima. Della serie, anche gli 'squali', a volte, piangono.

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