Rischia di diventare cronica, ormai, la grave scollatura tra i politici e il mondo reale, il lì fuori, l’ordinaria verità che incalza e chiede voce. Il fatto, l’ennesimo non-evento che riempie i notiziari è la lentezza con cui si sta tentando, nel nostro bolso Paese, d’affrontare il problema riforme. Un coro unanime le invoca come necessarie e ineludibili; chissà perché, però, sono arenate tra imprecisate sabbie attorno a cui aleggiano concetti – certamente sacri, ma forse un po’ troppo alla moda – come “difesa della democrazia”, “volontà dei padri costituenti”, “rispetto del Parlamento”.
Proviamo noi a fare come Grillo, adesso. Gridiamo. Ma prima è il caso di cautelarci precisando didascalicamente che: amiamo – con assoluta sincerità – la Costituzione (ritoccabile ma imprescindibile) e la democrazia parlamentare; crediamo fermamente – è un sommo bene – nella rappresentatività e nella partecipazione, nella dialettica e nelle sintesi che devono scaturirne.
Possiamo gridare, ora che siamo al riparo da ditini alzati in nome della libertà e degli intangibili diritti delle minoranze. Il punto è: siamo compiacenti ipocriti o irredimibili imbecilli? Noi – politici, “apolitici”, giornalisti, sindacalisti (rossi, gialli, grigi e/o con lo spettro della propria disoccupazione) – che seguiamo più da vicino il non-dibattito politico non ci accorgiamo che il Paese reale è annoiato, non ne può più dei giochini in Parlamento che troppo somigliano ai talk-show? Abbiamo castrato il Paese, abbiamo consentito che in larga parte si rammollisse – infettato da spazzatura e “comicità” comunque televisive – e ora gli chiediamo conto. Vorremmo levate di scudi da parte d’un popolo sovrano che scopriamo – e ci fingiamo sorpresi – stanco, insensibile e refrattario. Abbiamo creato un’immagine e somiglianza da arresto e ora ci scandalizziamo perché la gente è disamorata e disdegna la “politica”!
Andiamo al sodo: la “tecnica” – neanche il governo Monti è riuscito a scalfirne il mito – continua a essere sopravvalutata. Ciò è dovuto alla constatazione che il Terzo millennio ha espresso finora pochi fatti e troppe chiacchiere. La sensazione è quindi che si perpetui una finzione, una messinscena, in nome di princìpi che appaiono più sterili che immortali. È un meccanismo infernale: o al governo o all’opposizione devi comunque, per riscuotere consenso, rappresentare interessi generali e un po’ illudere, ma al contempo mostrarti continuativamente fattivo, parodia commestibile del taumaturgico operare tecnico. Tutto il resto, per l’italiano medio, è chiacchiera, impostura (se non – perfino – truffa).
Che facciamo, allora? Consentiamo a Renzi di fare le sue riforme così come le ha pensate, senza modifiche e ritocchi, senza che al bisturi parlamentare sia dato di intervenire?Facciamo in modo, cari lanciatori di pietre, di capire il presente. Sono, questi, tempi accelerati e impazienti, in cui si è poco disposti ad accettare lezioni “morali” che sanno di imbalsamato e di ipocrisia. Le minoranze collaborino costruttivamente alla causa delle riforme: la gente capirà di più e potremo migliorare il Paese. Le alternative rumorose, che sfociano regolarmente nell’ostruzionismo – ieri la lettera del premier ai senatori della maggioranza, un invito al senso di responsabilità prima della maratona a Palazzo Madama –, odorano di partito preso, di qualunquismo d’altro segno a fronte della simmetrica, forse indotta, idiosincrasia del governo Renzi nei confronti degli argomenti spesso pretestuosi delle opposizioni.
In molti soffrono come le opposizioni ma tifano per la maggioranza: la nuova politica, morta ogni possibilità di rivoluzione, passa attraverso sovvertimenti graduali. La giocata si fa con le carte che si hanno in mano.
Postilla: talvolta si diventa realisti perché angosciati dall’ignoto.
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