Ma che Paese è? Incipit qualunquista, sappiamo bene, ma a queste troppo italiche latitudini diventerebbero qualunquisti pure Gandhi, Marx e Giovanni XXIII, un Papa che ci manca particolarmente (sogniamo anche noi la pace su larghissima scala, rispettiamo le belle illusioni e, molto, lo spirito del Concilio Vaticano II). Strano Paese, questo: finge, mentre fa i conti con la perdurante recessione, di non avvedersi della pochezza dell’odierna classe politica – Renzi è apprezzabile “prodigio”, ma di un’era post-americana e avara oltremisura –, dei guasti strutturali procurati dalla televisione-spazzatura forgiata in Italia dal tramontato Berlusconi Silvio, dell’afasia che stringe alla gola la nostra svogliata letteratura (s’aggira, orba di lingua, in grame terre di nessuno), il nostro cinema “furbo” e scroccone (pur che sia e purché la Francia lepeniana ci blandisca), la nostra antica già alquanto svaporata vocazione all’export, il nostro calcio – arcimilionario e inespressivo – che si esterna al rallentatore.
Un Paese appassito, questo è. Come l’intera Europa: lei, la vera tenutaria del postribolo travestito da monastero di clausura, con le ferree regole del compromesso di stabilità, flessibili a convenienza ma rivendute invece come un dogma intangibile paragonabile al terzo, o trentesimo, segreto di Fatima.
Per favore: basta! Ricordate l’infallibile senatore Monti, che ha confuso persino i meno addomesticabili tra i di noi spiriti? Basta con i supereroi e con gli “eroi normali” (ci scusi, Vincenzino Nibali, è una vittima anche lui), basta adesso con lo sfattismo grillino (c’è bisogno – e questo si deve continuare a fare – di piccole cose vere costruite pietra su pietra, non di inaudite sante promesse di rivoluzione, ché persino «l’urlo» di Munch s’è svilito a furia di vederlo dappertutto), basta con i luoghi comuni, dal rigorismo tedesco al “cinismo” dell’odiato o divinizzato Marchionne, dall’inavvicinabile perfezione della nostra Carta Costituzionale al caratteraccio dell’inavvicinabile Balotelli.
Ieri è stato il giorno del primo importante sì al nuovo Senato. E un giorno qualsiasi, l’ennesimo, della vecchia Europa. Quest’ultima – cotidie – fa la sua, non cristallina, giocata. Fotocopia della partita americana – più importante, sempre, il fronte interno, rispetto agli specchietti esteri per le allodole, si chiamino Irak, la più interessante Ucraina, la martoriata Striscia di Gaza –. Ebbene, si capisca bene una non più trascurabile cosa: i match vanno e andranno fatti comunque con la Disunione europea e quindi dentro l’Europa. L’hanno afferrato i mai rivoluzionari, lo metabolizzino a rapide tappe forzate i post rivoluzionari o gli ancora rivoluzionari se degni di questo nome. Non può trovare durevole adesione né efficace approdo, nel nostro bacato ma “corazzato” Occidente, il cambiare dal basso (indicazione alfine populista); si può migliorare questo mondo soltanto plasmandolo da mezza altezza. Appunto Giovanni XXIII, ma anche Enrico Berlinguer e – epicamente – Nelson Mandela.
Epilogo qualunquista, ça va sans dire: che Paese è quello in cui può capitare che un docente in overdose d’ignavia – forse la peggiore delle libertine debolezze per chi attende all’educazione di giovani animi più che mai in erba – inviti il pluridecorato comandante Francesco Schettino campione di naufragi cruenti a (intrat)tenere un seminario sulla gestione del panico?
Forse un Paese che del panico, del sommerso poi dilagante tremore che attraversa un cuore quand’è sovrastato dal troppo, ha perso la preziosa memoria. E, quando non c’è più un troppo, non c’è più possibile bussola.