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Libia, la madre di
tutti gli errori


di Piero Orteca

 Negli ultimi due  anni la Libia è  diventata la parafrasi  di tutte  le castronerie  commesse dalle Cancellerie  occidentali in politica estera.  Sappiamo tutti che l’Europa,  francesi in testa, e gli  Stati Uniti (con meno convinzione)  hanno liquidato  Gheddafi per motivi non  certo nobilissimi. Gli interessi  di bottega, più o meno  luridi, l’hanno fatta da padrone,  e oggi i catastrofici  risultati ottenuti dalle varie  “Primavere arabe” sono sotto  gli occhi di tutti. O quasi.  Perché coloro che dovevano  vedere sono ancora girati  dall’altro lato.  Certo, è roba da pazzi.  Una sanguinosa guerra tribale,  condotta senza scrupoli  da bande di feroci scanna-  pecore, è stata spacciata  come una sacrosanta “lotta  per la democrazia”. Dirlo oggi  sembra scontato, ma solo  due anni fa significava essere  presi a pernacchie da  schiere di fessacchiotti, che  affollavano (oggi un po’ meno,  vista la mala parata) le  legioni dei benpensanti in  servizio permanente effettivo.  Da quando il Colonnello  uscito di testa è stato fatto  fuori dai servizi segreti di  Sarkozy, le cose nell’ex “Cassone  di sabbia” di giolittiana  memoria sono andate di male  in peggio.  Oggi in Libia comanda chi  ha un kalashnikov in mano,  il resto non conta. Petrolio,  controllo dei flussi migratori,  materie prime, odi ancestrali  fra le diverse etnie fanno  parte di un calderone in  perenne ebollizione. L’ultima  è dell’altro giorno. Il primo  ministro, Abdullah  al-Thinni ha mollato. Un nobile  gesto? Forse. Di sicuro è  altra benzina sul fuoco, perché  gli islamisti ne hanno  subito approfittato per chiedere  la resurrezione del vecchio  General National Congress,  dove spadroneggiavano.  Il presidente francese  Hollande, per la serie «chiudiamo  la stalla dopo che i  buoi sono scappati» ha invocato  all’Onu un «sostegno  eccezionale». Strana richiesta,  se fatta dal leader di un  Paese che ha praticamente  scatenato tutto questo putiferio.  Comunque, la mossa  di al-Thinni si spiega anche  con la necessità di formare  un simulacro di “Grosse  Koalitione”, che includa beduini,  cittadini, laici, jihadisti,  tripolini, cirenaici, gente  che arriva dalla regione di  Sirte e chi più ne ha più ne  metta. Tutto per evitare che,  dopo le prime strette di mano,  finisca a raffiche di mitra.  La questione è molto più  ingarbugliata di quanto si  possa credere. I fondamentalisti  (di Misurata) si appellano  al Congresso Nazionale  (a maggioranza islamica),  mentre liberali e federalisti  guardano solo al Parlamento,  costretto, visti i chiari di  luna, ad abbandonare Tripoli  e Bengasi e a riunirsi a Tobruk.  Ora, i jihadisti hanno  sconfitto le milizie laiche di  Zintan ed alzano la voce,  non riconoscendo i risultati  delle scorse elezioni di giugno.  Nel frattempo si sono  eletti un nuovo leader,  Omar al-Hasi, che, secondo  loro, dovrebbe andare bene  per tutti. Con le buone o con  le cattive. Nel frattempo,  l’aeroporto di Labraq è stato  attaccato con i missili (pesanti)  “Grad”, così è stato  chiesto ai “vicini” di intervenire.  In particolare ci si è rivolti  all’Egitto, dove il nuovo  presidente, generale El Sisi,  avrà mille difetti, ma gode di  un pregio unico: prima di  gettarsi nelle rogne con tutte  le scarpe, come hanno fatto  al tempo che fu francesi e  americani, ci pensa trentatré  volte.  Per cui la risposta è stata  “no grazie”, e tiremm innanz.  Occorre dire che Labraq, a  est di Bengasi, ha ormai sostituito  in tutto e per tutto  l’aeroporto internazionale di  Tripoli, dove ormai gli aerei  vengono regolarmente sforacchiati  dalle pallottole. Ma  la riflessione più importante  dev’essere fatta su una questione  di estrema evidenza:  la Libia è ormai diventata  una specie di terra di nessuno,  di campo neutro dove  tutto il Medio Oriente va a  giocare le sue partite. El Sisi  ha detto no a un intervento  di terra a Tripoli, ma ha lanciato,  assieme all’Arabia  Saudita e agli Emirati, un  air-strike col silenziatore.  Niente di eclatante, per carità,  ma sufficiente a far capire  che ormai, in quell’area, si  può benissimo fare a meno  del permesso americano.  Abdel Fattah El Sisi e il principe  saudita Sheik Muhammed  bin Zayed hanno deciso  un’azione congiunta contro i  miliziani islamici e, indirettamente,  contro i loro finanziatori  (il Qatar e il suo leader,  Sheik Tamim bin Hamad  al-Thani).  L’inimicizia con lo Stato di  Doha dura da lunga pezza.  Da quando, cioè, il piccolo  Paese del Golfo si è schierato,  armi e bagagli, dalla parte  dei Fratelli Musulmani (e  di Hamas). Gli analisti israeliani,  visti il cessate il fuoco  nella Striscia di Gaza e il sostanziale  flop fatto dallo strike  in Libia, si aspettano però  altri scontri “fratricidi” in  tutto il Medio Oriente. Col  Qatar nel mirino degli egiziani  e dei sauditi.  Ma la riflessione più forte,  come abbiamo anticipato,  verte sul ruolo (o, meglio,  sul mancato ruolo) della Casa  Bianca. La BBC parla  esplicitamente di “allegations”,  cioè di accuse o, per  meglio dire, di “speculazioni”  degli americani sul raid  aereo, che sarebbe stato  condotto da caccia degli  Emirati Arabi Uniti, i quali  hanno bombardato Tripoli  partendo da una base egiziana.  In pratica, a Washington  non sono stati avvisati di alcuna  mossa e i nuovi alleati  del Medio Oriente, Egitto in  testa, si muovono strafregandosene  di Barack Obama  e dei suoi generali a quattro  stelle e tanti pennacchi.  D’altro canto, dicono al  Cairo, è vero o non è vero  che gli Stati Uniti prima  hanno fatto (o, comunque,  hanno programmato) la festa  a Gheddafi, poi hanno  gettato a mare con tutte le  scarpe l’alleato di una vita  (Hosni Mubarak) e adesso  piangono lacrime di coccodrillo  perché in Libia comandano  almeno 350 milizie diverse?  Una cosa è sicura: il  National Security Council  Usa è sull’orlo di una crisi di  nervi. Libya Dawn (“Alba Libica”),  l’alleanza che raggruppa  gli islamisti, ha preso  il controllo della capitale e  del suo aeroporto. Come  spesso capita in questi casi,  anche Obama ha cercato di  applicare il suo motto «Yes,  we can» per uscirsene dal ginepraio.  «Yes, we can», nel  senso di «ce la possiamo fare  ». A organizzare un colpo  di Stato, aggiungiamo noi.  Ci hanno provato, da Bengasi,  col generale Khalifa  Haftar, ma la Libia non è  Grenada e le unità d’élite  impiegate (a cominciare dal  gruppo al-Saiqa) hanno fatto  un bel buco nell’acqua.  Fin dal 2011 il Qatar sostiene  gli islamici più o meno  moderati, guardato di sguincio  da diversi Paesi arabi.  Ma ora viene il bello. Assisteremo  a una mattanza fra  arabi, alcuni sostenuti da  Israele, ed ex alleati?   

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