Alla vigilia del trentaduesimo anniversario dell'assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa si torna a parlare della cassaforte trovata vuota nella residenza di Villa Pajno, dopo l'uccisione del prefetto di Palermo. Ad accennarne è il boss Totò Riina che nelle lunghe passeggiate col compagno d'ora d'aria, il pugliese Alberto Lorusso, dedica a Dalla Chiesa, trucidato insieme alla moglie e all'autista da un commando armato di kalashnikov, ampio spazio. In molte delle migliaia di pagine di intercettazioni, depositate dai magistrati agli atti del processo sulla trattativa Stato-mafia, spunta il nome del generale. Nelle parole di Riina ci sono pesanti invettive sul prefetto: "Lui gli sembrava che veniva a trovare qua i terroristi. Gli ho detto: qua il culo glielo facciamo a cappello di prete", dice il capomafia. Ma anche più di un riferimento al mistero della cassaforte. "Questo Dalla Chiesa ci sono andati a trovarlo e gli hanno aperto la cassaforte e gli hanno tolto la chiave. I documenti dalla cassaforte e glieli hanno fottuti", dice Riina al suo compagno. "Minchia il figlio faceva ... il folle. Perché dice c'erano cose scritte", spiega il capomafia alludendo alle numerose denunce che Nando Dalla Chiesa, figlio del prefetto, fece proprio sulla scomparsa di documenti dall'abitazione del padre. Il capomafia resta però sul vago. E nonostante le domande del co-detenuto, che, come in altre conversazioni, lo incalza su argomenti specifici mostrando una conoscenza curiosamente approfondita di indagini e fatti, non indica chi avrebbe ripulito il forziere. Al contrario di un anonimo che, mesi fa, ha inviato ai pm uno scritto, da lui stesso definito Protocollo Fantasma, in cui tra l'altro parla dei documenti fatti sparire dalla valigetta del generale. A differenza di Riina, che non si sofferma sugli autori del furto, l'anonimo indica in un sottufficiale dell'Arma il responsabile della scomparsa delle carte. "Ma pure a Dalla Chiesa gli hanno portato i documenti dalla cassaforte?", chiede Lorusso. "Sì, sì", risponde il boss che poi accenna alla cassaforte del suo ultimo covo, quello di via Bernini. Anche in quel caso, dopo la cattura del padrino, gli inquirenti non trovarono traccia di scritti. Una cosa non casuale secondo i magistrati che ipotizzano che ai picciotti fu dato il tempo di ripulire il covo in virtù del patto stretto tra chi, in Cosa nostra, aveva consegnato Riina allo Stato e i carabinieri. Ma Riina smentisce. "Li tenevo in testa", dice alludendo ai segreti da lui custoditi. "Loro - continua, tornando a Dalla Chiesa - quando fu di questo ... di Dalla Chiesa ... gliel'hanno fatta, minchia, gliel'hanno aperta, gliel'hanno aperta la cassaforte ... tutte cose gli hanno preso".
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