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Crisi, i tedeschi
ci hanno inguaiati


di Piero Orteca

  Diceva Gary Lineker, grande attaccante inglese: “Il calcio è uno sport meraviglioso, si gioca in undici e alla fine vince sempre la Germania”. Sbagliato. Perché il “Wunderteam” scoppoloni ne ha presi un sacco e una sporta, specie con l’Italietta. Ma se dalla filosofia della pedata ci si trasferisce all’economia, per esempio a quella tutta ecchimosi e ferite lacero- contuse dell’Europa, beh allora il paradosso potrebbe funzionare, magari messo così: il mercato dell’Unione è libero e frutto di decisioni comuni, ma alla fine comandano sempre i tedeschi. Punto. Nei periodi di vacche grasse, mangia tu che mangio io, la cosa si nota di meno, perché di foraggio ce n’è a sufficienza per tutti. Però, quando le cose vanno a sghimbescio, come negli ultimi sei anni, ci si guarda intorno per vedere chi continua a fare i cavoli propri e chi invece deve fare i salti mortali, per mettere d’accordo il pranzo con la cena. Ora i tedeschi sono tornati alla carica contro Draghi, presidente della Bce (Banca Centrale Europea) e contro il suo progetto (approvato a denti stretti) di ABS, cioè di Asset Backed Securities, un espediente per finanziare i Paesi più sofferenti prima che abbassino (definitivamente) le saracinesche. Mettendosi di traverso, i teutonici marcano una differenza strategica fondamentale e deleteria. L’economia è fatta di aspettative e se il socio più importante si “smarca” la ditta rischia il fallimento. Da questa vicenda si conferma che la Germania è il “boss” dell’Unione Europea, tutto giacca gessata, scarpe bianche e nere e garofano all’occhiello. Comanda e quando finge di non farlo, ordina sottobanco. Ha rinunciato al marco per abbracciare (si fa per dire) l’euro, con l’occhio lungo, chiedendo garanzie sul controllo del registratore di cassa e delle sue manovelle. E qualche idiota di turno gliel’ha lasciato fare. Questa lunga sparata era necessaria per introdurre il discorso della crisi economica che ha colpito il mondo e che sta affondando (inutile girarci intorno) anche l’Italia. La nostra tesi, da lunga pezza, è che il ciclone (prima solo finanziario, poi anche produttivo e di mercato) è anomalo e ha cause complesse. Insomma, una malattia che va curata con medicine e terapie diverse da quelle usate quando Berta filava. Il mondo non è più quello di dieci anni fa e l’Europa, costruita con le “specifiche” di vent’anni or sono, è diventata un Titanic senza timone, in attesa dell’iceberg di turno. Ma perché e come ci ha affossato la Grosse Deutschland? Partiamo dai numeri, dato che le chiacchiere stanno a zero e servono solo ai politicanti di turno per parare sacchi all’impiedi. La “madre” di tutte le notizie è che gli Usa sono riusciti (quasi “miracolosamente” per qualcuno), a portare la disoccupazione al 5,9% (Italia 12,6) e la produzione industriale (camminano a braccetto), nell’ultimo quadrimestre, al +4,1 (Italia, un terrificante -1,8%). Non solo. Ma il Pil americano, sempre nell’ultimo quarto, è cresciuto del 4,2%, mentre da noi, nonostante tutte le lacrime e il sangue versati all’Agenzia delle Entrate (o, forse, proprio per quello) il Prodotto interno lordo, in un uguale lasso di tempo, è andato giù fino a un deprimente -0,7%. Colpa del Bel Paese? Senz’altro. Ma noi facciamo parte di un carrozzone che si chiama Unione Europea, dove i moribondi (per non dire gli agonizzanti) sono in molti. Abbiamo citato i numeri di Obama, però, per un altro motivo. Negli Stati Uniti il morbo della crisi economica ha colpito forte sin dal maggio del 2007, per poi essere “esportato” nel resto del pianeta. La domanda è semplice: che pillole hanno preso gli americani per alzarsi dal letto in cui erano sprofondati come zombi? E perché loro adesso vedono il sole, mentre in Europa siamo ancora fermi dentro un banco di nebbia che si taglia col coltello? Per capirci qualcosa basta guardare le differenti strategie sui tassi d’interesse e sulla circolazione monetaria seguite dalle due banche centrali, la Federal Reserve Usa e la BCE di Francoforte. Insomma, gli americani hanno azzeccato subito l’antibiotico giusto, allentando i cordoni della borsa per pompare liquidità nel loro mercato interno, mentre i cervelloni della Bce (prima di Draghi) si sono tirati le pillole addosso, tenendo i tassi alti e lesinando i denari. Per paura dell’inflazione. Mentre l’America cominciava a marciare, qui, invece, si marciva, con gli imprenditori costretti a fare il giro delle sette chiese (pardon, delle sette banche) per non morire asfissiati. Tutto questo fino a quando alla Bce non è arrivato Draghi che, provando ad arrabattarsi per resuscitare l’Europa dal suo “rigor mortis” (abbassando poco a poco i tassi e inventandosi forme di “pompaggio” di denaro fresco nel sistema) ha fatto uscire dalla grazia di dio “Sturmtruppen” Merkel e la compagnia di processione che la segue. Qui, infatti, entra in ballo la Germania con tutte le sue paturnie, stratificate attraverso secoli di sconfitte, (fin dai tempi di Napoleone) e di conseguenti traumi nazionali. Lo spettro dei tedeschi si chiama inflazione e si traduce con la “Sindrome di Weimar”, quando, dopo la Prima guerra mondiale, andavano a comprare pane e salame con le valigie. Piene di svalutatissimi marchi. Da allora si portano due palle al piede: quella delle sconfitte “ingiuste” e quella dei wurstel che costano due miliardi a salsicciotto. Tutto vero, non è una barzelletta. A questa nevrosi ossessiva non sfugge nessuno, dalla Cancellierona fino all’ultimo dei rubizzi cittadini eredi dei Nibelunghi. Insomma, lo abbiamo già scritto in tutte le salse: in Germania non condividono, per niente, la filosofia attuale della Bce e vedono il suo presidente italiano come il fumo agli occhi. Anche se la crescita, il lavoro (e la disoccupazione), i prezzi, le tasse (e i conseguenti travasi di bile) dipendono in buona misura dal tormentatissimo rapporto, che si sviluppa sempre sulla lama di un coltello, tra la BCE e Berlino. I tedeschi, però, sono quasi sempre messi di traverso. Ora stanno rifacendo la guerra a “SuperMario” (Draghi) che spinge e, lo abbiamo già detto in varie occasioni, per far uscire l’Unione dalla crisi, circondato dall’ostilità dei panzuti banchieri prussiani. Tutto questo ristabilisce un principio fondamentale: la storia non bara. Dopo la catastrofe in cui furono massacrate le tre legioni di Varo, il console Giulio tornò, vittorioso, oltre il Reno, lasciando ai guerrieri di Arminio un messaggio, che è un testamento. A Teutoburgo Roma, è vero, aveva perso la Germania. Ma anche la Germania aveva perso, e per sempre, Roma. Cioè la cultura capace di aggregare la maggior parte d’Europa in un’unica, grande civiltà.

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