In politica internazionale spesso le disgrazie sono come le ciliegie: l’una tira l’altra. Per capirci, quando si commettono bestialità madornali, preoccupandosi solo dell’immediato (con un approccio che potremmo definire esclusivamente “tattico”)e non si guarda più lontano (con un respiro “strategico”), gli effetti negativi crescono in modo esponenziale, amplificati da una specie di “effetto domino”. Catastrofi a cascata, insomma. Per farla corta, oggi Kobane, città del nord della Siria, è diventata la metafora di tutti gli errori commmessi dalle Cancellerie occidentali in Medio Oriente negli ultimi anni (e non solo). Non sappiamo come si dica dalle parti della Casa Bianca, ma da noi lo “slang” siculo rende efficacemente l’idea. Non ci voleva certo l’orbo per indovinare la “ventura”.Cioè, detto in soldoni, la piega (brutta) presa dagli avvenimenti nell’immensa area di crisi che va dal Nord Africa fino al Golfo Persico, era già evidente da lungo tempo. Tranne che per coloro i quali avevano l’obbligo di risolvere l’inghippo. Certo, c’è una minaccia che va oltre le vicende belliche “dirette” e si chiama “terrorismo d’importazione”. Ieri, per esempio, il ministro Alfano ha ipotizzato che il porto di Bari “possa essere uno scalo d’ingresso in Italia per i jihadisti”. Per ora, comunque, solo ipotesi. Le ultime notizie dal campo di battalia dicono, invece, che Kobane, roccaforte dei curdi che si oppongono alle fanatiche milizie dell’Islamic State del “califfo” dal coltello facile, al-Baghdadi, sta cadendo, anche se è stato respinto un nuovo attacco al centro. L’IS punta a circondare la città e a chiudere l’unico corridoio ancora aperto, quello a nord verso la frontiera turca. Kobane è il crocevia di tutte le linee di comunicazione più importanti, che collegano la Siria alla Turchia e non bisogna avere studiato alla Scuola di guerra per comprenderne il ruolo strategico. Tutto questo, mentre proprio il governo di Ankara oscilla tra l’intervento nella coalizione anti-IS e la voglia di muoversi da solo o, addirittura, di lasciar perdere, aspettando che gli odiatissimi curdi vengano sgozzati dai belluini fondamentalisti partiti dall’Irak. Due mesi or sono avevamo prefigurato questo rischio (“Kurdistan, e chi ci pensa ai turchi”?), che adesso fa ballare pupi e tavolini dentro le segrete stanze della Casa Bianca e che fa scorrere i sudori freddi lungo la schiena di Obama e dei suoi generali a tante stelle. Erdogan, presidente- padrone della Turchia, è un islamista “moderato” che però, dicono gli esperti, va scivolando sempre più, in modo strisciante, verso posizioni rigide. E mentre l’inviato dell’Onu (Staffan de Mistura, l’italiano sottosegretario agli Esteri che si è occupato della vicenda dei nostri Marò arrestati in India) parla della popolazione bloccata dentro Kobane (che contava circa 50 mila abitanti), chi è riuscito a scappare dalla città e dalla sua provincia (200 mila persone) cerca affannosamente rifugio in Turchia. De Mistura ha messo la comunità internazionale in guardia: se l’IS conquisterà la città si potrebbe ripetere un altro massacro come quello di Srebrenica, in Bosnia. Il diplomatico ha inoltre inviato un appello, affinchè le forze armate turche si uniscano alla coalizione anti-IS. Tempo perso. Yasin Atkai, vice-presidente dell’AK, il partito di Erdogan, ha ribadito che “tutti i civili hanno già lasciato la città”e che i combattimenti riguardano solo “due formazioni terroristiche”, cioè quella fondamentalista di al-Baghdadi e i curdi del PKK. Come volevasi dimostrare. Non solo, ma ad Ankara parlano di un’autorizzazione del Parlamento per una spedizione militare in Siria e Irak, “contro tutte le forze che minacciano la Turchia”. Potrebbe essere l’occasione buona per chiudere la partita proprio con i curdi, che hanno ricominciato a essere il chiodo fisso di Ankara, come sostiene autorevolmente anche il corrispondente della BBC da Istanbul, Mark Lowen (“Turkey’s fear of a reignited Kurdish flame”, che tradotto significa, pressappoco, “La paura della Turchia di un ritorno di fiamma del problema curdo”). D’altro canto, dicono gli strateghi occidentali, senza un intervento di terra (ma da quest’orecchio gli americani non ci sentono) la vittoria dell’IS è scontata. Gli attacchi aerei da soli servono a poco, come dimostrano le cifre fornite dall’US Central Command: finora sono stati distrutti 300 veicoli armati, ma le perdite umane inflitte alle milizie islamiche sono state minime. Il lato paradossale della vicenda è che le violente proteste scoppiate in Turchia per chiedere un intervento contro l’Islamic State hanno causato oltre 30 morti. È presumibile che a scendere in piazza siano stati anche moltissimi cittadini di etnia curda, oltre all’opposizione “laica”. I numeri e i fatti lo fanno intuire: truppe nelle strade, coprifuoco per la prima volta dopo 22 anni, proteste in almeno 30 città ed edifici pubblici attaccati dai manifestanti. Tra le altre cose, non si è capito se i carri armati turchi schierati alla frontiera con la Siria, a ridosso di Kobane, stiano lì per minacciare le milizie dell’IS o, al contrario, per impedire ai Peshmerga del PKK curdo di attraversare la linea di confine per soccorrere i “cugini” incalzati dai fondamentalisti di al-Baghdadi. Insomma, chi è il vero nemico? Recep Tayyip Erdogan lo ha ripetuto fino a un paio di giorni fa. Il suo Paese interverrà solo se gli americani attaccheranno anche Bashar al-Assad, il presidente siriano, mandando definitivamente a monte, aggiungiamo noi, l’intesa raggiunta a rotta di collo da Obama con gli sciiti di Teheran. Sì, perché l’Iran resta il vero “convitato di pietra” dell’imbroglio e il reale obiettivo di tutti i sunniti della regione, dai “moderati” del Golfo (e di Ankara), ai qaidisti di al-Nusra in Siria, fino ai tagliagole dell’Islamic State. Naturalmente, da Washington dicono che, per ora, non se ne parla proprio di attaccare Assad, e che la priorità resta quella di combattere l’IS, che minaccia di soppiantare con un “inverno” a tinte fosche i rimasugli della defunta “Primavera araba”. Intanto, in Irak, al-Baghdadi sta accerchiando anche Mosul e la provincia occidentale di al-Anbar. In Siria, invece, gratta gratta, ormai è solare, sotto la vernice spunta da tutte le parti il millenario conflitto tra turchi e curdi a spiegare l’immobilismo dei carri armati di Ankara a pochi chilometri da Kobane. Per dare un.idea, negli ultimi 35 anni, il conflitto con l’etnia curda ha causato qualcosa come 40 mila morti. E il PKK di Abdullah Ocalan (che anni fa era diventato una star in Italia) ha messo tutti in guardia: se cade Kobane tutto il faticoso processo di riconciliazione con la Turchia se ne va a ramengo. E siccome, l’anno prossimo, si voterà per rinnovare il Parlamento di Ankara, questa non è proprio la migliore delle notizie per lo stesso Erdogan, che conta di chiudere il cerchio dopo aver vinto di stretta misura (col 52%) le recenti elezioni presidenziali. Insomma, dove ti giri giri trovi guai e, ogni giorno che passa, appare sempre più evidente il manicomio combinato da quei politicanti occidentali che si sono messi a giocare con la “Primavera araba”. Maneggiando il “Piccolo chimico” della diplomazia come dei dilettanti allo sbaraglio, hanno fatto saltare per aria tutto il laboratorio.
Kobane, la Stalingrado dei curdi
di Piero Orteca
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